mercoledì 28 ottobre 2009

Napoleoni, l'economista che pensava in grande

La parola “lezione” non piace a nessuno, e il nome di colui da cui si dovrebbe andare a scuola, Claudio Napoleoni, non è proprio di dominio pubblico. Ragion per cui il seminario organizzato dalla Fondazione della Camera dei Deputati potrebbe rimanere lettera morta, se non fosse che quella “Lezione di Claudio Napoleoni” sviscerata da economisti, politici, sindacalisti, contiene così tanti elementi di pensiero dinamico da farci rapidamente dimenticare il contesto e l’aria rapida, per certi versi solenne, con cui gli interventi si sono succeduti. Undici relazioni e una sola relatrice: la donna (Carla Ravaioli), parla alla fine, dopo dieci uomini. Peccato. Perché questa unica donna immette nel discorso un linguaggio visivo, non arroccato sulla propria specializzazione, capace di “mostrare” anche a chi Napoleoni non lo conosce o lo stava dimenticando la pragmaticità di una visione egualitaria, ecologica e femminista del tempo “riproduttivo”, un tempo in cui gli uomini e le donne siano padroni di se stessi e non puri strumenti di produzione: “Claudio Napoleoni si muoveva tra l’osservazione della più modesta ferialità quotidiana e l’azzardo di una visione più alta” dice Ravaioli, che con l’economista e politico torinese aveva collaborato poco prima della sua morte, avvenuta nel 1988.
La giornata di studio, intitolata “Cercate ancora”, è stata introdotta da Fausto Bertinotti, presidente della Fondazione della Camera dei Deputati, che ha sottolineato due elementi del pensiero di Napoleoni: la scienza critica e la speranza.
Indubbiamente, “speranza”, è una parola strana, una parola che passa meno facilmente di “utopia”, perché che non fa parte del patrimonio linguistico di una sinistra laica e comunista.
C’era, infatti, in Napoleoni, un anelito ad un “trascendimento dell’ordine esistente”. Il che lo portò, verso la fine della sua vita, ad abbracciare la filosofia heideggeriana e ad interrogarsi su questioni di ordine teologico, come ci racconta Raniero La Valle: “Ad un certo punto, Claudio Napoleoni non è più sicuro della bontà del finito e comincia a chiedersi, con Heidegger, se per caso solo un Dio possa salvarci”. “Per quello che riguarda invece il suo rapporto con i comunisti, riconosce che per riscattare l’alienazione umana bisogna uscire dal capitalismo. Altrimenti perché continuate a chiamarvi comunisti? chiedeva ai suoi compagni del Pci…Quando lui ormai non c’era più, i comunisti hanno cessato di chiamarsi comunisti ma le alienazioni non hanno cessato di esistere”.
Napoleoni era capace di vedere come l’uomo viene ammazzato di lavoro, come viene “suicidato dalla società”, misurava in termini di ore la progressiva riduzione di libertà, disegnava con grande lucidità quel movimento sofisticato, complesso, ma non irreversibile, attraverso cui “il capitale tende a diventare totale, cioè autoritario, mirando a ridurre i soggetti a cosa”, e per questo insisteva sulla questione della divisione di classi: “Ristabiliva una dialettica di lotta di classe in un momento in cui il concetto di classe stava scomparendo solo perché alcune classi avevano vinto e altre avevano perso” (Riccardo Bellofiore).
Altra parola strana, oggi a sentirsi: “classe”. Chi parla più oggi di rapporti e conflitti di classe?
Forse anche per questo l’economista e politico italiano si sentì ripetutamente tradito dalla Sinistra: “Chiedeva al Pci di riflettere sul problema delle nuove alienazioni” (La Valle)”; “Era convinto che la Sinistra dovesse contrapporre al modello degli altri, un altro modello” (Bellofiore); “Nella Sinistra, diceva nel 1987, non c’è più la tendenza a raggrupparsi per grandi idee, grandi problemi, grandi impostazioni” (Mario Tronti).
“Pensare in grande” non gli impediva di ragionare in termini pragmatici. Non a caso, tra le sue idee di economia politica è passata alla storia la cosiddetta “lotta alla rendita” (“Napoleoni voleva ristabilire il primato del valore d’uso al valore di scambio, quando il capitalismo fa tutto il contrario” spiega Alessandro Montebugnoli) e la proposta concreta di una settimana lavorativa di 30 ore, il che significava “poter scegliere il proprio tempo e definire una diversa qualità del tempo” (Carla Ravagnoli). Napoleoni ha impartito importanti lezioni di “politica strutturale”, quando “sono proprio le politiche strutturali quelle che cambiano le politiche di sviluppo: non a caso è la linea che oggi sta seguendo Obama” (Silvano Andriani), e ha combattuto battaglie precise per migliorare la vita dei cittadini, come quella sulla scala mobile contro il governo Craxi (ce lo ricorda Giorgio Cremaschi). Convinto che invece di modificare la natura, si potesse procedere alla modificazione dell’uomo (Giorgio Ruffolo).
Alcune di queste battaglie sono ancora tutte da giocare, ma c’è ancora qualcuno disposto a mettere sul tavolo da gioco un’idea di politica come “movimento di liberazione dell’uomo”?
Questa è domanda che ci rimane tra le mani, lasciata da un uomo “che si è sporcato le mani” (Bertinotti), un politico che amava lanciare in alto la trama della sua filosofia economica e politica: “Ricordando Napoleoni, mi sento di ripetere quello che Engels disse di fronte alla tomba di Marx: “E’ stato un economista perché è stato innanzitutto un rivoluzionario”(Vittorio Tranquilli).
Ma quello che più ci colpisce di tutti questi ritratti diseguali e compositi (che potrebbero anche rimanere appesi all’aula del refettorio del palazzo del Seminario senza prendere mai aria), è il disegno di una figura capace di incarnare l’esigenza di una doppia verità, il più possibile aderente alla complessità dell’essere umano che si trova a vivere oggi: “Napoleoni parlava di due domini del reale: il dominio materiale e un dominio d’altro genere, legato a rapporti non mercificati. L’uno non escludeva l’altro, perché per lui era possibile essere tutt’e due le cose, cioè stare contemporaneamente dentro e fuori il sistema produttivo” (Alessandro Montebugnoli).

Pubblicato su "L'Altro" il 28 ottobre 2009

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