martedì 20 ottobre 2009

Ignazio Marino, la cultura e la paura

19 ottobre 2009, Piccolo Eliseo, alle undici del mattino comincia un dibattito strano, perturbante, a tratti allegro, un po’ scolastico forse (ma di questi tempi la scuola è un covo di rivoltosi, quindi occhio a quello che dicono gli scolari!). Un dibattito che potrebbe essere archiviato o registrato tra gli atti di propaganda elettorale di un candidato segretario di partito (il Pd), un europeo dal volto asiatico vissuto negli States che parla con un certo entusiasmo non solo di morgue ma anche di spettacolo. Ignazio Marino include varie volte tra i punti del suo programma la parola cultura (per esempio: “raggiungere un livello minimo di investimenti nella cultura pari all’1% del bilancio dello Stato”), e il mondo della cultura e dello spettacolo lo ringrazia, Paolo Virzì e Valerio Magrelli in prima linea. Maddalena Crippa gli crea su misura anche un inno, con la sua energia di attrice rigorosa e combattente, adattando su Marino una canzone di Gaber, e verrebbe anche un po’ voglia di dire “forse è anche troppo”, e invece no, non è mai troppo, basta perdere, basta defilarsi, basta fare gli intellettuali. Ci vuole un inno? Facciamo un inno. Evviva gli inni.
Tutto questo è nuovo, e persino festoso. Ma c’è poi un altro piano del discorso, che non può esaurirsi in un dibattito e che ci obbliga tutti a fermarci e pensare. Nel corso dell’incontro al Piccolo Eliseo, è stato evocato lo spettro del nazismo e del fascismo. Per descrivere il collasso culturale del paese, la violenza con cui il premier e i suoi stolti ministri stanno azzerando la capacità di pensiero, si è fatto più volte riferimento agli anni Trenta, alla notte dei Cristalli, al rogo dei libri e all’offuscamento delle menti. “Non è che si sta preparando una nuova Shoah contro gli artisti, contro i Benigni e contro i Jovanotti?” chiede nel suo toscano forte, umoristico, Paolo Virzì. Sorride e dice Shoah. Legge, si alza e va al suo posto. Tra gli applausi. Ancora più forti i toni di Moni Ovadia, che non prepara nessun discorso ma usa una voce potente per far tuonare nel teatro le parole “razzismo”, “leggi razziali”, “minoranze”, dicendo cose in effetti sacrosante, come “c’è una classe politica che odia i giovani”, oppure “i diritti delle minoranze li decidano le minoranze, e non le maggioranze secondo i loro tiramenti del giorno”. Applausi a scena aperta.
Renato Nicolini mostra i calzini: “Non sono turchesi come quelli del giudice Mesiano, ma sono ancora più strani…Guardateli, sono a quadrettoni…In questo paese un giudice non può emettere una sentenza senza trovarsi poi sbeffeggiato su Canale 5….Questa cosa si chiama delazione”. Applausi.
Dopo aver ascoltato tutti, Ignazio Marino si alza e dice, più o meno: non prometto niente ma farò di tutto. Lui che viene dalla ricerca universitaria conosce il valore impalpabile, all’inizio improduttivo, della cultura, il peso non misurabile delle idee: “E’ terribile che si affermi una politica culturale che premia solo ciò che fa cassetta. Un mondo così taglia tutta la ricerca e il pensiero che sta dietro alla ricerca. Quella ricerca e quel pensiero che non fanno subito profitto ma che sono alla base del nostro futuro”. Applausi.
Valerio Magrelli ci porta sul tavolo una premonizione di Giorgio Bocca: “Anche se ha preso tanti abbagli, Bocca è stato il primo a parlare di Berlusconi come di un eversore”. Applausi.
Scorre una nota di oscuro malessere, una specie di attacco d’asma che dal singolo si estende al gruppo. “Mi fa male il mondo” dice Maddalena Crippa citando Giorgio Gaber, e Moni Ovadia nomina “lo spavento”: “La legge sui clandestini è una legge razzista. Si è creata la figura del deviante, così come avvenne con gli ebrei, con i rom…”.
Se anche la metà delle cose dette fossero vere, se contenessero un germe anche minimo di profezia, allora vuol dire che non abbiamo tempo né di applaudire né di respirare.
Difendere la cultura vuol dire anche affermare l’irriducibilità, l’urgenza, il sangue delle parole. Se “delazione”, “nazismo, “Shoah”, non ci fanno più nessuna paura, allora si possono tranquillamente buttare nel mucchio accanto, per esempio, a “spettacolo”, “canzone”, “partito”, cioè a parole che non ci fanno saltare sulla sedia tutte le volte che le pronunciamo, mentre “Shoah”, “delazione” e “nazismo” dovrebbero scatenarci un vero terrore.
Allora le cose sono due. O non sappiamo quello che diciamo, oppure lo sappiamo troppo bene.
Se non siamo più capaci di sentire il significato delle parole, possiamo anche arrivare a dichiarare cose così esagerate e inopportune da creare un boomerang.
Ma se invece gli anni che viviamo fossero davvero paragonabili agli anni Trenta in Germania e in Italia, dovremmo correre a rileggerci - per agire ora, subito - le pagine di Hannah Arendt quando descrive la differenza mostruosa che passa tra chi non vuol vedere e chi invece riesce a vedere, tra chi minimizza per opportunismo e chi invece sente alle porte il passo della morte, il sacrificio umano. Eccolo, il futuro dietro le spalle.

Pubblicato su "Gli Altri" il 20 ottobre 2009 (con il titolo "A tu per tu con la cultura che fu")


Il 25 ottobre voterò Ignazio Marino per tre ragioni:
1) E' un momento delicato in cui c'è bisogno di persone delicate che conoscono il valore della vita e della morte.
2) Al clima di paura e alla passività dominante, possiamo reagire solo con un atto di responsabilità personale, e non certo con lo sberleffo e l'indifferenza.
3) Il cambiamento politico e culturale del paese non può che partire dai diritti degli esseri umani, e il laicismo convinto di Marino e il dato più terrestre e coraggioso - direi addirittura immaginativo - che ci sia capitato d'intravedere tra i tessuti diseguali di quell'animale un po' preistorico un po' moderno, ma non ancora morente, che è il Pd.
(pubblicato su "L'Altro")

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