Sta in silenzio per tre ore. Prende appunti. Guarda, annuisce, sembra sereno, ma chissà che tempesta deve agitarlo da dentro una volta che Birgit Daiber (Fondazione Luxemburg) tira fuori dai suoi diagrammi preparati con germanica cura e senza enfasi il dato di realtà più sconvolgente della sinistra europea: il 25 per cento dei disoccupati tedeschi ha votato a sinistra, sinistra-sinistra (Die Linke), e non a sinistra-destra né a destra. Fausto Bertinotti riserva per sé una specie di epilogo, un discorso di retorica capovolta, un ragionamento bello e spietato, che non ha paura di nominare il fallimento italiano (“Siccome vengo da una parte che ha perso più di oggi altra, mi guardo bene dal salire in cattedra”) ma che, al tempo stesso, non può fare a meno di alzare lo sguardo oltre il confine, ai disegni diseguali della Sfinge Europa: “Il successo di Die Linke non ci deve abbagliare… Accanto a questo fatto, che potrebbe erroneamente sollevare in noi un senso di nostalgia, dobbiamo leggere anche il terrificante dato dei 25 milioni di disoccupati in tutta Europa”.
Di fronte ad una platea di pochi reduci avvinghiati al linguaggio della politica, Bertinotti celebra il funerale della politica: “Non credo più alla possibilità della politica da sola”.
La seppellisce con lentezza, cercando di mettere dentro la tomba tutto quello che può servire per un arredo funebre: il cibo che l’ha nutrita (l’utopia), e il veleno che l’ha uccisa (l’idealismo).
In risposta al giornalista Aldo Garcia che invita a “non leggere i fatti internazionali attraverso le lenti del dibattito italiano”, sostenendo che “la socialdemocrazia non è morta assolutamente”, Bertinotti non rifiuta di nominare il corpo infetto: “E’ vero che le socialdemocrazie non sono morte, ma è vero che possono morire.. E’ vero che non siamo morti, ma è vero che possiamo morire”.
Ed è una battuta scivolata per caso, uno strano lapsus, un lapsus cosciente, a nominare la colpa originaria: “Noi ci scherzavamo: “Se prenderemo il voto degli operai, vinceremo…Perché gli intellettuali e i ricchi già ci votano”. Anche Franco Giordano, che è in sala, ride. Ride di un riso sincretico, terrorizzato.
Questa scena si svolge al Teatro Eliseo, all’interno di un convegno intitolato “La Germania dopo il voto. L’Europa politica: la grande assente” organizzato dalla rivista bimestrale di Bertinotti, “Alternative per il Socialismo”, un piccolo pensatoio che dietro l’apparente aria di nicchia elitaria cela una fibra vitale, sinceramente interessata, per esempio, all’affare Europa, zona boschiva, impenetrabile, refrattaria a costituirsi come solido interlocutore del colosso americano.
“Il luxemburghiano oggi è Obama” dice Fabio Mussi, raccogliendo lo sguardo severo di Birgit Daiber, che invece è venuta a raccontarci con pudore lo strano caso della Linke che con il suo 11,9 per cento ha raggiunto il miglior risultato della sua esistenza, seppure in assenza di un programma fondamentale. A fronte di un crollo dei socialdemocratici della Spd che dal 1998 hanno dimezzato i loro voti (risultato esaminato con grande lucidità da Michael Braun della Fondazione Ebert) e della indiscussa vittoria dei liberali che il 14, 6 degli elettori ha premiato per la promessa di abbassare le tasse e per la chiarezza di una proposta che si è affidata ad un marketing non ambiguo (lo spiega Tobias Piller, Frankfurter Allgemeine Zeitung).
Più si sviscera il caso tedesco, determinante anche per la lunga tradizione socialdemocratica, più salta agli occhi l’anomalia italiana, la sua confusa e spezzata identità. “Non siamo più il caso italiano di una volta, anzi siamo all’ultimo posto” afferma Aldo Garcia, che invita a registrare anche la vittoria dei socialisti in Grecia. “In Europa non c’è nessuna situazione paragonabile a quella italiana, non solo per il nostro governo, ma anche a causa di un’opposizione impotente e innocua” riflette Fabio Mussi, che vede invece in altre parti d’Europa un segnale di resistenza al capitalismo globale finanziario, da noi sostanzialmente accettato: “Questa totale condivisione dell’ideologia dominante, e cioè che bisogna correggere gli eccessi, senza toccare le strutture, è alla base della grande crisi della sinistra”.
Un altro sintomo da diagnosticare nel caso elettorale tedesco è quello che indica la fine non solo del bipartitismo ma anche del bipolarismo. Un orientamento anche per noi? Quali segnali cogliere, dove guardare? E soprattutto, abbiamo ancora da dire e fare qualcosa?
“A rischio di complicare, invece che semplificare, voglio evitare la tentazione di ricavarne una lezione per l’Italia” conclude Bertinotti, dopo aver puntualmente sviscerato le ragioni della differenza tra la Germania e l’Italia. “Oggi siamo meno simili di quanto non fossimo anni fa”. Niente lezioni dunque, ma solo motivi di riflessione. E’ una cautela nuova, un piccolo movimento in avanti di un politico che mentre nomina la morte della politica, si guarda umilmente intorno per leggere i sintomi e preparare la cura. “Chi ha il potere di definire le cose, ha il potere di fare”: come dice Birgit Daiber, che invita ad un diverso senso di responsabilità: “Fabio Mussi è stato troppo entusiasta sulle elezioni tedesche. Noi sappiamo, per esempio, che nella coscienza della gente la crisi economica non è ancora arrivata. Bisogna lavorare ancora moltissimo”.
Pubblicato su "L'Altro" il 6 ottobre 2009
giovedì 8 ottobre 2009
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