martedì 4 agosto 2009

Sandokan, la camorra prima di Gomorra

Il punto d’osservazione è il bar di una piazzetta davanti alla Chiesa. L’occhio che guarda è l’occhio di un ragazzo che lavora al bar. Dal bambino che era, diventa un adulto e mentre cresce racconta quello che vede, lo racconta tutto in un respiro, senza riposo, senza pausa. Descrive gli omicidi, la paura, l’omertà, l’assuefazione alla morte, la messa a morte della giovinezza, e il suo occhio è una macchina da presa che accende gli angoli bui, le strade infettate dal male. Dietro di lui, c’è l’autore, rigoroso, lieve, impalpabile, un autore che sembra fatto di solo orecchio, uno scrittore come ce ne sono pochi, che sa ascoltare e ricomporre in un unico piano-sequenza, in uno strepitoso stream of consciouness, la lingua bruciata e le parole tagliate di questo ragazzo diverso, un personaggio immaginario che (come disse Roberto Saviano una volta) vuole semplicemente, ma con forza, dire la differenza tra la vita e la morte. Con Sandokan, Storia di camorra (appena ripubblicato da Derive e Approdi, 14 euro), Nanni Balestrini fa quello che Sokurov ha fatto al cinema (Arca Russa), solo che invece delle stanze dell’Ermitage di San Pietroburgo qui osserviamo i primi piani e i dettagli di una rappresentazione da sacro inferno, in un unico abbraccio che parte dall’occhio del giovane barista si allarga alle strade di Casal di Principe e torna al punto di partenza, tante volte: tante quante sono le stanze (capitoli) di questa sinfonia fono-visiva, fragorosa e insieme silenziosissima, un esperimento certo, che nel suo rapimento formale trova l’alchimia per sottrarsi al già conosciuto. Ed ecco che al posto di un quadro dell’Ottocento, la cinepresa tattile di Balestrini inquadra scene concentriche: il movimento plastico di centinaia di “muschilli”, ragazzi al servizio della camorra che avvistano posti di blocco e movimenti strani a spifferano tutto al boss, sciami senza nome di giovani bruciati, ex muratori, ex figli di famiglie perbene ma senza destino alle spalle e senza futuro che ad un certo punto si troveranno un fucile in mano (perché quando si scatena la guerra di camorra anche i muschilli devono sparare); l’agitazione dentro un pulmino per andare a scuola dove i figli di quelli che prenderanno il potere fanno i prepotenti a undici anni e sempre a undici anni quelli che invece il potere non ce l’hanno devono guardare in faccia i primi morti, i corpi sfigurati di parenti, amici, compagni di scuola; e poi la scena con Bettino Craxi che va al bar col boss dopo averlo pregato di non ricandidarsi coi socialisti, “e la cosa finisce lì”; o la famosa strage dei Cutoliani al Circolo dei Cacciatori che segna l’inizio dell’ascesa vorticosa del clan dei Bardellino, con i goodfellas che arrivano una domenica mattina in piazza con un pulmino, lo posteggiano, scendono, sparano all’impazzata massacrando anche dei poveri cristi che non c’entrano niente e poi risalgono sul pulmino e se ne vanno “come se niente fosse”; e ancora il macero della frutta perché nessuno ci fa soldi; e infine la visita del nostro protagonista ormai emigrato al nord all’obitorio del suo paese con la puzza di sangue congelato “e quella puzza è la stessa identica puzza che sentivo addosso a un mio amico che ha una macelleria”…
Il potente libro di Balestrini comincia con la cattura di Sandokan, con il boss sanguinario che si ripara dietro le due figlie nel bunker costruito dentro la sua villa, e si chiude con una scena di catarsi, una piccola speranza, un movimento che interrompe il piano-sequenza stringente per scrivere forse l’inizio di un’altra storia, altrove.
Nel mezzo, un diluvio di parole incollate di fila senza punteggiatura ma che hanno ricevuto l’attenzione maniacale dell’artista che le ha incise una per una, facendole risaltare dal fondo vermiglio, ciascuna col proprio colore e il proprio odore. Così come fa con le sue opere visive, Nanni Balestrini ha usato anche qui un libero montaggio di elementi, scegliendo di non virgolettare le fonti giornalistiche, ma facendole sciogliere nel flusso di un discorso orale, dove chi scrive è l’orecchio che ascolta e l’occhio che vede.
In una processione profana, disperante, di padri senza valore e figli abituati alla morte che ripetono come una cantilena la ragione mafiosa per cui qualcuno è stato squartato come un maiale la mattina, Sandokan di Balestrini costruisce, per contrasto (per fortuna senza i toni della letteratura dichiaratamente “civile”, ma in un tono di epica drammatica, a cui è impossibile sottrarsi come lettore), una fibra di passione resistenziale. Lo fa pagina dopo pagina, seguendo da vicino il processo di maturazione del giovane protagonista, e lasciando alla fine quella che Roberto Saviano chiama nella sua introduzione al libro “una traccia diuturna, una fenomenologia della vita al tempo della camorra”.

Pubblicato su "L'Altro" il 4 agosto 2008

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