martedì 18 agosto 2009

La scomparsa di Tullio Kezich, "zio" nobile della critica italiana


Lontano, remoto. Un critico che ha attraversato il Novecento, uno che è stato amico di Fellini e degli altri sacri mostri del cinema italiano, non puoi che vederlo così: come un monumento. Eppure Tullio Kezich era anche straordinariamente vicino. Anche se non lo conoscevi, anche se l’avevi solo sentito parlare, anche se di lui avevi solo letto alcuni suoi copioni e le recensioni sul “Corriere della Sera”. Già...così lontano e così vicino. Come mai? Oggi che forse l’ultimo padre nobile della critica cinematografica italiana se ne è andato, ci costringe a misurarci con la nostra epoca frastagliata e con la nostra relazione con i modelli culturali con cui siamo cresciuti e di cui, spesso giustamente, ci siamo anche voluti liberare. “Ogni vita riuscita è un caso di orfanismo” scriveva Alberto Savinio. Eppure ci sono certe figure come quella di Tullio Kezich verso cui, pur non essendo direttamente debitori, ci siamo sempre sentiti attratti, incuriositi, intellettualmente affascinati. Forse perché Kezich, nonostante i suoi ottant’anni (ne avrebbe compiuti ottantuno il 17 settembre), ha fatto in molti casi da traghettatore tra un’epoca e l’altra, prendendo ogni volta su di sé il compito – qualunque esso fosse – con la serietà dell’intellettuale che è innamorato del cinema come del teatro e vuole dormirci accanto, passando sulle cose e sulle parole dell’arte notti insonni. Più che un padre distaccato e narcisista, Tullio Kezich ci è sempre sembrato un fratello maggiore. Uno studente adulto, al modo in cui Kafka intendeva la figura di chi cerca sempre ed è felicemente angosciato. Un uomo che portava impressi ancora nel volto quella vocazione al pensiero “resistente” e quella attrazione fatale per il genio italiano. Strehler, Fellini, Olmi sono stati i suoi grandi tre amici artisti. Con ciascuno di loro ha tracciato un percorso, di ciascuno ha - con chiarezza crociana - raccolto le tracce. Del fondatore del Piccolo Teatro Kezich ci ha raccontato in molte forme la portata storica dei suoi gesti, ma anche la sua complessa umanità. Di Fellini, il critico triestino ha scritto la biografia, e fra loro non c’era bisogni di un linguaggio che traducesse da un sistema di segni all’altro, perché parlavano la stessa lingua, si comprendevano. “Fellini è sempre stato lontano dalle mode, dalle catalogazioni, così come dall’essere definito politicamente. Attirò su di sé molte critiche per questo. Quello di stimolare emozioni e percezioni con le immagini era il suo mestiere, il suo talento naturale, più che il frutto di uno studio o di uno stile preconfezionato. Lui era così”: sono parole di Kezich su Fellini, che oggi possiamo adattare allo stesso Kezich..”Lontano dalle mode e dalle catalogazioni”. Ed è forse in virtù di questo ossimoro che portava in sé – un’attenzione viva al presente e un leggero anacronismo – che il critico ha costruito l’alleanza fraterna con Ermanno Olmi, il più remoto, puro, intransigente, tra i nostri registi-documentaristi. E non è certo superfluo oggi ripescare alcuni frammenti delle loro lunghe conversazioni, dove il sentimento della realtà si specchia nel lavoro di due menti incapaci di compromesso, desiderose di giungere anche per via drammatica e poetica alla verità. La loro amicizia risalte al 1959 e si è nutrita di un comune sentire. Dapprimo lettore e consigliere, col tempo Kezich comiciò anche a scrivere per Olmi (firmò un primo soggetto dell’”Albero degli zoccoli”, dialogarono insieme “I fidanzati” e “I recuperanti” con Mario Stern, film per la tv), fino al successo della “Leggenda del santo bevitore”, Leone d’Oro a Venezia. “Dopo aver visto il film, nessuno leggerà o rileggerà più come prima le sessanta pagine del racconto di Roth” decretò Morandini. Era il 1988. Come sceneggiatore, Tullio Kezich riceveva il riconoscimento forse più alto della sua carriera. Eppure lui fino all’ultimo non ha voluto nessun merito sulla riuscita dell’opera: “Nel cinema io sono un occhio che guarda, non ho specifiche attitudini per mescolarmi alla parte creativa e drammaturgicamente resto un teatrante. Anche per “La legenda del santo bevitore” temo di avr fatto ben poco figuro come sceneggiatore, ma vorrei piuttosto considerarmi uno zio del film”.
Uno zio del film. Un po’ paternilistico, forse, come sentimento. Perché non dire sceneggiatore, autore, critico, e basta? Questa sua espressione risulta persino irritante. E potrebbe piacere poco ai giovani, perché lo zio è “uno di famiglia”, uno, insomma, che sta sempre in mezzo ai pranzi di natale e alle cene di laurea. Eppure, se ci riflettiamo un po’, aveva ragione lui. Tullio Kezich ha fatto in molto casi da zio, e da fratello maggiore, della cultura italiana. Non portava in sé le stimmate terribili del padre, né se ne è mai stato per conto suo con il broncio dell’eterno figlio disubbidiente. Ha preferito, piuttosto, vivere con gli artisti, mettendo a loro disposizione tutto quello che poteva, tutto ma proprio tutto. Ed è rivelatorio che fino all’ultimo lui si considerasse un teatrante, se non altro perché le opere che ha adattato per il teatro (e fra tutte citiamo “Il Fu Mattia Pascal”) di sicuro superano il numero di opere realizzate per il cinema. Ed è dal culto dell’attore teatrale che Kezich traeva la rarissima capacità di trovare - nelle sue recensioni di cinema - un vocabolario adeguato per l’arte del recitare: “L’attore è l’unica realtà tangibile dello spettacolo – scrisse in un suo libro - Perché esista il teatro basta che ci sia l’attore, basta che l’attore non ci sia perché non esista niente. Tutto quello che è venuto dopo l’attore (drammaturgia, messinscena, tecniche, teorie, conferenze, lezioni) è soltanto sovrastruttura”.
L’anno scorso, eravamo andati a vedere a teatro “Il romanzo di Ferrara”, regia di Piero Maccarinelli, con gli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia. Uno spettacolo didattico e vibrante, uno di quelli che con la sua semplicità riesce a far passare il sangue vero del passato nel sangue afono di oggi. Tullio Kezich aveva scritto l’adattamento. Non era impresa piccola. Anche perché Bassani è un grande scrittore, e vallo a tradurre. Eppure Kezich ci era riuscito. Non si sa come, ma ce l’aveva fatta. Si aveva l’impressione che anche in questo caso il critico-scrittore avesse a lungo interrogato le opere di Bassani, per ritagliarne le parti più carnali senza distruggere la letteratura, quelle parti che anche un giovane di vent’anni oggi può amare. E’ questa l’opera di uno zio? Sì, se lo zio è uno che sa capire e ascoltare, uno che non dorme mai perché ha il compito di vegliare sugli artisti del proprio tempo e di preparare quelli che verranno.

Pubblicato su "L'Altro" il 18 agosto 2009

Nessun commento: