martedì 21 luglio 2009

llotopie e Judith Nab a Torino: esperimenti per bocca e occhio


TORINO. Vatti a fidare dei nomi. Se, distrattamente, qualcuno vi parlasse di un festival che si chiama “Teatro a corte” e che va in scena nelle dimore sabaude, che cosa vi verrebbe in mente? Nel migliore dei casi, un teatro di rappresentazione - magari anche alto e raffinato - ma sganciato dal contemporaneo. Ornamentale. Forse superfluo. Un’occasione di intrattenimento lussuoso per una casta di uguali. E invece…Passare in questi giorni in Piemonte (il festival dura fino al 26 luglio) e inseguire le voci del teatro europeo può significare molte cose, nessuna delle quali innocua. Al contrario, c’è la seria possibilità di uscirne ammaccati, spaventati, affamati, felici: diversi da prima. Consapevoli di aver varcato una soglia. Chiedendovi, come Emily Dickinson, “se fu ieri o secoli fa”. A Torino, negli spazi della Cavallerizza Reale, c’è, per esempio, una stanza dove farete conoscenza del vostro io. L’ha inventata una ragazza olandese (la video-performer Judith Nab), modellandola a misura della sua immaginazione incandescente e generosa. Ci ha messo le cose che ama lei. In un angolo c’è un tavolino con la cartina di Amsterdam, dei quaderni pieni di disegni della sua casa, e una piccola foto con quattro arabi di cui uno tutto vestito di bianco: non è chiaro cosa stiano facendo, forse uno di loro è in manette, o forse siamo noi che vediamo manette che non esistono al polso degli arabi che camminano per le strade di Amsterdam. E’ una immagine subliminale fra altre. Appesi ad un albero di luce, ci sono i canti di Leopardi e le poesie d’amore di Apollinaire. Su un altro tavolino, potrete scrivere una lettera e imbucarla, mentre da una delle prime radio un uomo parla in inglese. Se vi piegherete al centro della stanza, noterete una piccola giapponese che nuota sulle pieghe del vostro volto. Ed è per voi che squillano i telefoni: dall’altra parte, una donna ha qualcosa da dirvi. Sullo schermo, scorrono i volti delle persone che non avete incontrato (All the People I didn’t meet è il titolo della installazione) e in francese qualcuno vi scrive : “Voglio vedere la pittura che fai, la musica che sei”. In chat, un respiro risponderà a respiro, sancendo i confini di un legame senza logos. Forse per la prima volta, con Judith Nab, cade l’aggettivo lynchiano col quale nel tempo abbiamo voluto indicare tutto quel che di misterioso e angosciante e ambiguo si trattiene nelle “red rooms” dell’inconscio. Questa stanza abitata da figure intermittenti (gli spettatori) che incontrano se stesse nell’ombra, non è lynchiana ma nabiana. Somiglia a se stessa.
Strano, e potente, “teatro di corte”, questo che ospita Judith Nab. Un festival “esperienziale”, che le cose le fa capire con scosse percettive, secondo le trame di una estetica contemporanea. Qualche giorno fa, ha allestito un banchetto tragico annunciato come performance di strada: La Bonne Voie/Le Banquet della compagnia Ilotopie. Un evento difficile da descrivere.
Trecento spettatori seduti ad un tavolo bianco e sottile, in mezzo dei binari, ai lati delle tende da cui sbucano i saltimbachi francesi che servono cibo e bevande. Avvitata alle accensioni e alle fughe del temporale estivo, la serata va in scena in scena in un clima felliniano (il Fellini dei Vitelloni) ma è forse Greenaway il vero grande orchestratore. Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante scorre nella pellicola della mente mentre, scioccati, divertiti, affamati, gli spettatori/commensali subiscono una serie di colpi terrificanti. Il corpo di un soldato mezzo vivo e mezzo morto offre maionese a tutti e pochi rifiutano di prenderla dal suo (finto) ventre sanguinante. Mentre, fischiettando canzoni della Resistenza, una signora scarmigliata si aggira con il suo cappotto maculato: sotto il cappotto, “indossa” un vestito di carpaccio piemontese che taglia a fette sottili per questo “Banchetto” tragico della storia europea (molti riferimenti alla rivoluzione francese e alle due guerre mondiali).
Spettacolo geniale, conturbante, che sale piano piano alla coscienza, rivelando dietro la sua forma ludica, le sue figure da fiaba (i conigli, le damigelle settecentesche), uno scheletro feroce. Ed è antropofago alla fine il rito a cui gli spettatori, confusi ed ebbri, partecipano, con l’occhio e con la bocca. Nutrendosi letteralmente dei resti del Novecento.
Pubblicato su "L'Altro" il 21/7/2009

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