Chi l’aveva incontrata recentemente, a Wuppertal, sosteneva di averla vista diversa dal solito, un po’ assente, molto affaticata. Agli amici confessava di aver combattuto molto col suo corpo per finire l’opera “Pina Bausch, Debutto 2009”, dedicata al Cile. I medici le curavano il cuore (e per questo la sua cardiologa viaggiava sempre con lei). Cinque giorni fa le è stato diagnosticato invece un tumore. Chissà quando, chissà come, la morte ha deciso di portarcela via. Pina Bausch, senza dubbio la più grande coreografa contemporanea, se ne è andata a sessantotto anni. Si è spenta senza preavviso, ma in un modo delicato, e silenzioso, così come ha vissuto.
Quest’ultimo spettacolo nasceva da una residenza di Pina Bausch e dei suoi danzatori multietnici nel Nord desertico e nelle isole Chiloè del Sud del Cile. Chi era con lei ci ha raccontato del suo desiderio di andare fino in fondo, e capire come vivevano le comunità indigene, quelle fuori dalla Storia. A Santiago, aveva passato un’intera giornata a Villa Grimaldi, che oggi è un parco ma è stato un luogo di tortura ai tempi di Pinochet. Di tutto quel materiale antropologico e umano, Pina Baush aveva trattenuto alcune cose, elaborandole, fino al debutto l’11 giugno scorso, nel suo teatro di Wuppertal, di un’opera senza titolo. Un’opera di pochi essenziali elementi, tra cui un grande pavimento bianco che lentamente s’incrina e poi si ricompone fino a sgretolarsi di nuovo:il correlativo oggettivo, forse, di quel presentimento di morte che la coreografa tedesca in qualche modo già manifestava, ma che non le vietava di esprimere ancora la favolosa energia della sua mente al lavoro. Le impressioni ricavate nel museo dell’orrore erano trasmigrate in movimenti sottili, cose impalpabili, misteriose, difficili a dirsi. (Un uomo, una donna, lo sanno quando stanno per morire.)
Direttrice del Teatro di Wuppertal dal 1973, Pina Bausch ha coniato il termine “Tanztheater”, per definire un teatro della danza, o della vita, o dell’esperienza. Talvolta si definiva anche “compositrice di danza”, per sottolineare il valore che nella sua arte ha avuto la musica. Fin dai tempi di “Café Muller”, lo spettacolo del 1978 che l’ha resa famosa nel mondo, composto sulle musiche di Henry Purcell. “Cafè Muller” – quaranta folgoranti minuti di danza per sei interpreti tra cui la stessa Pina Bausch, che ricreavano suoni originari nel ventre di una “drammaturgia totale” – è diventato un archetipo da citare decostruire e omaggiare: da Pedro Almodovar, che iniziava uno dei suoi film più belli, “Parla con lei”, proprio con una scena a teatro in cui il protagonista va a vedere “Cafè Muller”, fino al più recente “Rewind” di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, uno spettacolo che, a trent’anni di distanza da quel magnifico pezzo di storia dell’arte del ‘900, si interrogava sui processi della memoria, fino a stabilire che quello stesso oggetto è diventato inevitabilmente altro, trasformato dal tempo.
Ed oggi che la notizia della sua morte ci ha costretti a fare anche noi il nostro personale “Rewind”, andiamo con la memoria ai suoi spettacoli dedicati a Palermo e a Roma, a quella sua capacità visionaria e semplice, felliniana a volte, quel potere non intellettuale di guardare le cose, che ci ha portato, come spettatori, a farci le domande più dirette, ma anche le più feroci, senza mediazioni, con urgenza. Le stesse domande forse che lei rivolgeva ai suoi danzatori, quando, scandalizzando il mondo ingessato dei coreografi più tradizionali, abitanti di un mondo che non esiste più, cominciò a chiedere ai suoi artisti non di imparare questo o quel passo di danza ma di rispondere a cose del genere: “da piccolo avevi paura del buio?”, “cosa fai quando ti piace qualcuno?”. E sui questionari, su quella privata grammatica delle passioni, costruiva poi le sue opere d’autore collettivo.
Dal 4 al 6 luglio andrà in scena a Spoleto, come previsto, il suo spettacolo dedicato all’India, “Bamboo Blues”: sono già arrivati i tecnici, mentre il corpo di ballo, che adesso è in Polonia, atterrerà nelle prossime ore. Mancherà però lei, Pina Bausch, questa donna geniale e rivoluzionaria- coreografa, danzatrice, regista, antropologa - che ha portato in giro per il mondo le sue idee esplosive celate dentro quel suo corpo ascetico, la lunga treccia ormai grigia e il vestito rigorosamente nero: un’icona che attraversa il Novecento e si lancia in avanti, con la leggerezza pensosa dei grandi al lavoro.
Pubblicato su "l'Altro"
venerdì 3 luglio 2009
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