lunedì 22 giugno 2009
Psicopatologia della critica: in difesa di Antichrist
Sentenze rabbiose che vorrebbero produrre l’effetto di un vetro rotto. Giudizi apocalittici, di violenza sommaria: “pornografico, blasfemo, misogino”. Verdetti censori: “non andatelo a vedere”. Quando appare la dedica a Tarkovskij, ci si mette tutti in fila, ci si appella alla lesa maestà, si inforca la penna e come liceali investiti di un ruolo dal preside si compie, sghignazzando, il sacrificio rituale.
Dal Festival di Cannes, la critica italiana non ci aveva lesinato descrizioni di mutilazioni e gesti sadomasochisti ritagliati, in modo questo sì pornografico, dal corpo organico di un film d’arte, con il gusto perverso di affermare la propria superiorità morale, ma soprattutto la propria sanità fisica e mentale rispetto al delirio di un cineasta che davanti a tutti confessa di aver sofferto per due anni di depressione. Antichrist di Lars Von Trier è arrivato nelle sale con l’etichetta di film “horror”, “splatter”, “disgustoso”, l’opera di un artista malato che ha avuto l’ardire di turbare con i suoi “animaletti parlanti”, “le sue vagine e i suoi peni in primo piano”, la quiete del re/censore e del pubblico (notoriamente voyeur e presenzialista) del festival.
Questa la valanga di sconcezze pronunciate - con gran soddisfazione dei direttori dei giornali - su un film che (e bisogna essere anestetizzati e pazzi per non vederlo) non solo è un’avventura estetica di raffinatissima tessitura, ma anche una summa teologica, un’opera cosmogonia sul funzionamento della psiche e sugli affondi infernali del dolore, una composizione lieve e densa sui transiti mercuriali dell’anima ferita.
Nei resoconti osceni che ci sono stati spacciati per oggettivi, si dice, più o meno, di un marito e una moglie a cui muore il bambino nel momento in cui fanno selvaggiamente l’amore, lei entra in depressione, poi lui la porta in un bosco, lei impazzisce definitivamente, diventa una strega e infine muore per mano di lui, dopo avere inflitto terribili sevizie al marito e a se stessa. Nessuno o quasi scrive che il marito (Willem Dafoe) è uno psicoanalista e lei (Charlotte Gainsbourg, premiata poi come migliore attrice nello stesso festival) la sua paziente: insieme affrontano il peso mostruoso del lutto. E a pochi è saltato in mente di indulgere sulla composizione sinfonica dell’opera, che si avvale della ricerca di decine di psicoanalisti, teologi, storici dell’arte, musicologi, studiosi del mito e di stregoneria (bastava leggere i titoli di coda), senza diventare mai pesante, sciogliendo al contrario questa mastodontica materia nella lievità malinconica di un racconto di fiaba, in una recitazione altissima e in un disegno pittorico di disarmata bellezza.
Non abbiamo idea di cosa possa essere accaduto dal punto di vista della psicologia del profondo, quale imbarazzo, che tipo di autocensura e quale insondabile terrore abbiano potuto causare una tale nevrosi collettiva, ma indubbiamente il fenomeno rivela uno dei meccanismi del potere: quello che si esercita a livello “critico” ed è affidato alla presunta competenza di chi è chiamato a dare i voti, infastidito se l’artista in questione (che, sia chiaro, non è un angelo e si diverte spesso a provocare) si presenta in dichiarate condizioni di debolezza psicofisica, poco attrezzato per il red carpet e le pantomime da star “su di giri” che si vorrebbero uccidere l’un l’altra e invece si abbracciano con le lacrime agli occhi.
Non bisogna per forza conoscere a memoria l’opera di Freud e di Jung, “L’Anticristo” di Nietzsche, il “Saggio su Pan” di Hillman, i drammi di Strindberg (riferimenti culturali che non sarebbero nocivi), per capire Antichrist. Basterebbe mettersi nella disposizione pura dell’ascolto, insomma fare il proprio lavoro, il che significa leggere il tempo del racconto e ricostruire, usando la propria testa – scrollandosi di dosso l’effetto di una isterica proiezione all’interno di un isterico festival -, gli elementi formali dell’opera, divisa in questo caso in un prologo, quattro capitoli (“dolore”, “pena”, “disperazione”, “i tre mendicanti”) e un epilogo.
Naturalmente, è più semplice fare della grossolana sociologia e del sarcasmo di casta, accendendosi con aria saccente una sigaretta davanti ad un piatto di ostriche (Cannes è famosa anche per questo), piuttosto che mettere se stessi in pericolo.
Attira molti più consensi una gregaria accusa di misoginia (la tentazione del “politically correct” di facciata), piuttosto che un’allarmata e spietata diagnosi di tutti gli indizi contenuti nel testo filmico.
In Antichrist, la donna finisce uccisa da un uomo. Come finivano uccise dagli uomini le streghe narrate nei libri che la protagonista stava leggendo per la sua tesi di laurea. Lars Von Trier l’ha ripetuto fino allo spasimo: “Parlare della stregoneria non significa essere d’accordo con gli inquisitori”.
Ma chi può dare retta ad un uomo antipatico e malato, uno che dice: “Fare questo film mi ha aiutato ad uscire dalla depressione”?. Il mondo dei sani e dei censori non gli perdonerà mai l’autobiografia come atto estetico e politico. Piuttosto racconta un altro film. Tutto tranne che accettare di fare un viaggio di conoscenza e denudarsi, così come fanno, con un pudore senza veli, con la grazia sincera e disperante degli artisti, il regista danese e i suoi due conturbanti attori.
(Pubblicato su "L'Altro")
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1 commento:
grazie per il tuo articolo.
finalmente un'aria pulita su lars von trier.
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