domenica 14 giugno 2009

Storia mitologica e tempo presente, quel pasticciaccio brutto nel quartiere Olimpo…


ROMA. Una donna vestita tutta di rosso: vestito, scarpe, cappello, borsa e rossetto. Anche il vino che beve è rosso. E il sangue che esce dal corpo di “Io”, la migliore amica dai capelli rossi. La donna si chiama Era. Era come la moglie di Zeus, suo marito e fratello maggiore, e figlia di Crono, il dio del tempo, che appena nata aveva l’aveva mangiata (come tutti gli altri suoi figli) e poi gentilmente sputata. Salvata per mano di Zeus, e poi divorata anche da lui. Nel sacrificio del matrimonio. Ingravidata, ingrassata, tradita, vessata, messa quotidianamente a morte dalla sua mente barbarica. Se si passa al Teatro Argot di Roma - e vale proprio la pena andarci - si può fare la conoscenza di questa donna, che nella scrittura e nell’interpretazione raffinata di Cinzia Villari diventa figura spessa e profonda. Non rivisitazione del mito, ma mito essa stessa.
Perché di Era Rosso colpisce il tratto archetipico, l’originalità di un’opera che pur non dichiarandosi “combattente”, è tra i lavori femministi più corrosivi e poetici che ci sia capitato di vedere recentemente.
Agganciato al filo di una sophisticated comedy, lo spettacolo evita ogni discorso “a tesi”, facendoci fluttuare in un mondo di significati che nascono e si sciolgono nel tempo presente della vicenda mitologica.
Di aggiornamenti di trame mitiche se ne vedono in giro persino troppi. Ma nella maggior parte dei casi si tratta di spettacoli concepiti a tavolino, che risentono di un’impostazione scolastica. In questo caso, invece, la figura di Era è già lì, sul palcoscenico: un’istantanea a colori che rimarrà a lungo impressa nella retina, con la sua bellezza magra, la voce vibrante, l’azzurro degli occhi e il nero dei capelli, il sorriso spossato e l’intelligenza sulfurea della lingua.
Da subito, in pochi delicati e rabbiosi movimenti, Era ci conquista alla sua storia, che è la storia di tutte, ma solo perché è profondamente sua. La storia di una donna mangiata, masticata, abbrutita, sacrificata prima dal padre e poi dal marito, chiusa in un condominio, trasformata in un animale procreativo, ingannata dall’amica che nel nome dice “Io”, e impazzita per gelosia.
Di fronte a tutti, Era confessa che l’amore materno è un’invenzione culturale. E ci fa entrare in punta di piedi nell’orrore della vita familiare, dove la violenza è linguaggio quotidiano, prassi maschile autorizzata e legalizzata dall’occhio ciclopico di un “grande fratello” che farà del crimine un bello spettacolo, da masticare anche quello, assieme ai resti totemici del corpo femminile.
Accordata con le note del clarinetto di Michele Villari (suo fratello), Cinzia Villari -diretta qui con eleganza da Lorenzo Profita – si fa pienamente attrice, nel costruire decostruendo, tessendo su voce e gesto la partitura jazzata della propria stessa scrittura, che traduce una potente “grammatica della passioni”.
Era Rosso intrattiene e allena lo spettatore sul piano di una spericolata mise en abyme del testo spettacolare, che è sempre obliquo, doloroso e sensuale.
Partendo dal doppio senso della voce “Era” (nome proprio e imperfetto del verbo essere), l’artista romana gioca con la lingua in una forma avvolgente, fuori norma, senza mai cadere nella pura esibizione delle proprie abilità, ma mostrandoci con la musicalità della sua recitazione brillante, spiritosa, il sacrificio rituale di una donna.
Protagonista di “un pasticciaccio brutto” scoppiato nel quartiere “Olimpo” di una metropoli, Era vestita di rosso e macchiata di rosso ci porta dritto alla nostra storia filogenetica, ma senza grandi discorsi, con grazia e senza paura, usando la leggerezza furiosa e sincera del teatro.

(Pubblicato su "L'Altro" il 13-06-2009)

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