martedì 30 dicembre 2008

Nella stanza del critico artista


Ci sono critici che scambiano l’esercizio intellettuale per un privilegio di casta, e fissandosi nella contemplazione della propria presunta competenza passano tutta la vita rinchiusi in un recinto opaco, variamente comodo, dannatamente sterile, che non mette radici da nessuna parte. E ce ne sono altri che si innamorano in forme persino tragiche delle opere e degli artisti che hanno ossessivamente frequentato, fino al sublime paradosso che in vecchiaia il ricordo di una scena familiare si confonde con una scena di teatro, la voce del proprio figlio con” la nota stonata” che nella partitura dei Sei Personaggi pirandelliani emette il Figlio, creatura “appartata”, “diverso tra i diversi”. A questa seconda razza appartiene Aggeo Savioli, storico critico dell’ “Unità”, che ad ottantun anni dà alle stampe i suoi Sonetti teatrali (Bulzoni Editore, 10 euro), un libretto spiritoso e in certi passaggi persino commovente che ricompatta nel rigore antico, controcorrente, dell’endecasillabo, i propri sentimenti di spettatore e lettore di teatro, incapace di non essere, fatalmente, anche artista. E proprio per questo condannato a vivere letteralmente i tormenti, gli amori e i sogni fratturati dei personaggi con cui ha trafficato per più di mezzo secolo. Lasciando che attraverso questi versi “armati”, sigillati nella corazza della forma poetica, passino i frammenti di un discorso amoroso - discorso intimo, simulacro di un corpo a corpo - che nelle recensioni non poteva sempre trovare espressione. I Sei Personaggi pirandelliani invadono gran parte della scena mentale di Savioli con le loro richieste d’aiuto, la pena del sentirsi intrappolati in una forma che il drammaturgo lasciò genialmente scritta a metà, per far parlare proprio la parte mancante, l’eccedenza di vita, il grido di dolore, ben oltre la pagina, al di là della replica.
Ci sono poi le creature shakespeariane, Amleto, Desdemona, Re Lear, Prospero, Macbeth e Romeo, nascosti dietro sipari cuciti a mano dal critico-poeta, messe a dormire dentro stanze in cui possono parlare liberamente di ciò che sono stati e di quello che forse avrebbero potuto essere. Su questo palcoscenico privato passa anche l’ombra del “compagno Eduardo”, quel De Filippo che raccontò “la vita come una commedia semiseria, che può parere a volte quasi oscena”. Ed è un grande regista chiamato per nome ed evocato ben quattro volte (“Per Luchino ancora”…), il destinatario di un amore duro a morire, un amore nutrito dal ricordo di una stagione della vita in cui la ricostruzione post-bellica fu possibile anche e soprattutto grazie al dispendio immaginativo di personaggi come Visconti (“Quanti allora ti furono accanto, hanno nel cuore ancor La Terra Trema. Non teatro. Non cinema, Un incanto”). I personaggi sfilano uno ad uno sullo scrittorio del critico, immerso nelle proprie carte, nei suoi memoires. Mentre le luci si assottigliano su scene sempre più private, “Sonetti familiari” e “Sonetti esistenziali”, che lasciano dietro le figure teatrali per riversarsi sull’essenza: in una forma laica, ironica e gentile, come laico, ironico e gentile è l’uomo che scrive.
Pubblicato su "Liberazione" il 30/12/2008

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