mercoledì 10 dicembre 2008

La riscoperta di Manganelli scrittore di teatro


Un tappeto di finto prato riveste i gradini del teatro, poche sedie, gli spettatori prendono posto direttamente sull’erba. Teoricamente, potrebbero anche distendersi, ed ascoltare ad occhi chiusi il movimento acquatico delle parole che giungono dall’altra parte, dietro la parete trasparente che separa platea e palcoscenico. Di là, sono sdraiate quattro figure, tre uomini e una donna. Parlano tra loro il linguaggio della logica. Vivono in Un luogo imprecisato, uno spazio né dentro né fuori inventato per loro da Giorgio Manganelli e ora tradotto su una scena altamente tecnologica da Renzo Martinelli. Passano il tempo tendendosi reciproche trappole linguistiche, chiedendosi, senza risposta, i reciproci nomi e le reciproche storie. Attendono di capire in che direzione conducano i passi di chi sta bussando alla porta. Neanche l’ingresso di un quinto uomo col cappello da Napoleone altera la loro condizione impossibile, la labilità di uno stato di intermittenza tra la veglia e il sonno, che invece di tradursi in linguaggio sgrammaticato, onirico, si avvita su un meccanismo dialettico implacabile, addirittura feroce.
Non è certo sulla dinamica teatrale di entrate e uscite, né sulla suspense, che questa “non pièce” di Manganelli trova il suo punto di equilibrio, ma nel suo continuo sfuggire al genere. Anche se è del teatro, dell’enigma della casa-teatro, che qui si parla, mettendo in campo il dispositivo della visione che è sempre e anche dispositivo della lettura, e dell’ascolto. “E allora, se non è neanche un teatro, e guarda che è a un teatro che somiglia molto, che cosa è mai? – si chiedono i personaggi parlando dell’altra stanza, in tutta simile alla loro. “”Cos’è? Un ripostiglio? Dimenticato? Un guardaroba? Uno scaffale?”. Abbassando le luci, disponendo gli spettatori in uno stato di arrendevole ammaliamento sonoro, Martinelli enfatizza la natura radiofonica del testo (interpretato non a caso come radiodramma nel 1974 da Carmelo Bene), che ha solo una somiglianza apparente con A porte chiuse di Sartre.
Non solo quest’atto unico, ma tutto il teatro di questo straordinario ed eccentrico scrittore italiano è stato da poco ri-pubblicato da Bompiani, nella raccolta Tragedie da leggere (euro 10.20): un volume curato in maniera ineccepibile da Luca Scarlini, che nella lunga introduzione ripercorre le tortuose vicende sceniche di Manganelli,tra gli anni Sessanta e Settanta. Se, per un verso, le sue irredimibili opere venivano accolte nei luoghi dell’Avanguardia teatrale di quegli anni (tra cui il romano Teatro dei Centouno) trovando in più di un’occasione un’alleanza con il Gruppo ’63, dall’altro lato esse sfuggivano per loro natura ad ogni collocazione, conservando quella natura di “saggio critico”, di “teatro letto”, di “scena pagina”, che rendeva impraticabile l’esecuzione rappresentativa.
Tragedie da leggere, appunto. Tragedie che attingono al repertorio dei personaggi shakespeariani come Cassio governa a Cipro, un pastiche che scompone e ricompone pezzi dell’Otello senza nessuna attenzione alla trama, tenendo come personaggio guida un logorroico Jago, “fra tutti l’ultimo, l’infimo, colui che sta sotto, vive, come i cani, in un mondo di giarrettiere, di mutande, di scarpe infangate, di peti, di urina di cavalli”.
Pezzi irresistibili, come Hyperipotesi che porta alle estreme conseguenze - criminali - la vita vissuta nelle sue metodiche assuefazioni, o Monodialogo, una comicissima lezione di forma che disvela l’incongruità di qualunque pièce ben fatta e ben scritta, sabotando l’incolumità degli autori che a casaccio fanno dire ai loro personaggi “buongiorno” “buonasera” o “arrivederci”. Forte la tentazione di dirsi “buone tenebre”, perché è nelle tenebre che questi personaggi manganelliani si nascondono. Piu voci che corpi. Più ombre di carta che personaggi in carne ed ossa.
Il volume della Bompiani contiene anche un inedito, forse anche il testo teatrale più estremo e più sorprendente di Manganelli. Si intitola High Tea e mette insieme attorno ad unica tavola ovale Amleto e Ofelia, Giocasta ed Edipo, Gesù e Maddalena, tre coppie borghesi che con fulminanti battute (Edipo: “Suvvia, Amleto, lei è un uomo di mondo”; Amleto: “Se con ciò lei intende dire che sono immondo, che ho ucciso e dunque conosco la vita, non posso darle torto”) si confrontano sui massimi sistemi. Inutile dire che l’opera non venne mai realizzata, perché giudicata blasfema da un responsabile democristiano del settore radiofonico. Questo avveniva nel 1974. Chissà cosa scriverebbe oggi l’autore di Hilarotragoedia, chissà quali falsi miti attaccherebbe. Sempre ipotizzando che qualcuno accettasse di farlo parlare. Seppure con difficoltà, nell’epoca in cui è vissuto ha trovato alcune sponde intelligenti. Luca Ronconi nella Biennale Teatro più decentrata della storia (sempre il 74) aveva voluto portare in scena a Marghera, tra gli operai, Cassio governa Cipro, mettendo in conto le polemiche e il rischio del fallimento che un’operazione del genere poteva provocare (e che infatti provocò). Chi oserebbe oggi fare una cosa del genere?
In un luogo imprecisato di Giorgio Manganelli, regia di Renzo Martinelli, con Raffaella Boscolo, Giovanni Battaglia, Paolo Cosenza, Alessandro Quattro, Paolo Scheriani , è in scena al “Teatro i” diventerà presto un radiodramma per la Rai (Direzione Strategie Tecnologiche).

Pubblicato su Liberazione/Queer sul 14 dicembre

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