
PRATO. Una sera d’ottobre, a Dro, nel freddo dell’attesa tra una performance e l’altra della “Factory One”, nello spazio vuoto di un non-tempo, ci era capitato di fare una conversazione sui generis con Virgilio Sieni. Si era partiti dall’immagine della testa di coniglio, che abita diverse stanze del cinema di Lynch: ultima in ordine di tempo una stanza di Inland Empire, dove una famiglia di creature doppie, metà uomini metà conigli, se ne sta seduta immobile davanti ad un televisore fissando le proprie stesse interferenze sonore, nel cerchio magico di uno spaventoso enigma. Sieni aveva poi spostato l’attenzione sui cervi e sui cavalli: con le parole sfogliava lì per lì un paesaggio remoto fatto di passeggiate in campagna, di apparizioni animali ai confini della notte. Citando Lucrezio, ci aveva fatto sentire quanto può essere fredda la “fredda mente dei cervi”. Brandelli di quella speciale conversazione sono riemersi a galla durante la visione di La natura delle cose, l’ultima opera di Sieni che ha appena debuttato al Fabbricone di Prato. Un’opera di una bellezza scombussolante: un unico battito di camminamenti epifanici, dove sessanta minuti si contraggono in un istante di pura folgorazione. Lo spettacolo comincia con un’immagine decisamente lynchiana: da un palcoscenico nero appare la testa-giocattolo di un cavallo anch’esso nero: nero di teatro, nero di vernice nera e opalescenze luminose. E si chiude con la testa di un cervo poggiata sul corpo esile di una Venere ormai vecchia, fasciata nel suo abito di luccicanze porpora. Eccola, la fredda mente dei cervi, a trascinare, figurazione dopo la figurazione, la linea sinuosa, intima, di uno spettacolo che trova un ordine spaziale all’avventura sottile della mente.
La voce non convenzionale di Nada Malanima (bella idea, quella di non ricorrere ad un’attrice) ci guida dentro il De rerum natura di Lucrezio, tradotto in alcuni suoi brani dal filosofo Giorgio Agamben. Mentre sulla scena immersa in un bianco latteo, delimitata nelle sue tre pareti da diafane, altissime tende che i danzatori attraversano come se precipitassero da uno stato all’altro, si consuma la danza di Venere: simulacro prima sospeso nel vuoto, poi allineato per terra, infine rannicchiato su se stesso, con lo sguardo cyborg del Nume fissato sulla platea. Ogni volta è una maschera, sempre abnorme rispetto al corpo sottile di Ramona Caia, presenza di natura sciamanica (sostenuta dai gesti dei suoi compagni Massimiliano Barachini, Jacopo Jenna, Csaba Molnar e Daniele Ninarello), a segnare le diverse età della dea, prima undicenne, poi bambina di due anni, infine anziana di ottanta.
Su un filo delicato, fragilissimo, in bilico tra “delizia” e “orrore”, la coreografia di Sieni si scioglie e si riavvolge sul nastro del tempo, regalandoci una delle più forti e autentiche esperienze estetiche che ci sia capitata di vivere negli ultimi anni.
Al disegno di questa precisa condizione mentale e sensoriale contribuiscono fortemente le musiche originali di Francesco Giomi, che accarezzano le forme aeree dei movimenti coregrafici come possono fare il vento o l’acqua a contatto con la materia. Di spettacoli belli se ne vedono tanti, ma è rarissimo trovare un’opera che abbia la capacità di tenere per la durata di un’ora un tono così tenue, incantato, dove le immagini del “corpo di dentro” danzano per noi, in una soglia precisissima che si situa tra le aperture e gli spifferi delle bianche tende trattenute da una gigantesca mano, accogliendo e respingendo “quell’impulso al movimento che si genera dal cuore, e che prima procede dal volere dell’animo, poi si diffonde a tutto il corpo e le membra” (Lucrezio). Nei gesti silenziosi, senza peso, dei suoi danzatori-angeli (ad un certo punto dello spettacolo, indossano grandi ali blu), Virgilio Sieni fissa uno stato di esattezza spirituale, che Lucrezio definisce “un’esigua inclinazione degli atomi, in un punto indeterminato dello spazio e in un incerto momento”.
I simulacri danzano in sogno. E’ il “corpo senza organi” di Artaud ad occupare ora tutto lo spazio mentale dello spettatore che fissa, sedotto e atterrito, il movimento interiore delle cose, la musica che fanno.
Lo spettacolo è in scena al Teatro Fabbricone di Prato fino al 14 dicembre.
Pubblicato su "Liberazione/Queer" del 30 novembre 2008
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