martedì 25 novembre 2008

Bikini Bum Bum, niente è come appare


Con il finale del precedente spettacolo, Nnord, Roberto Latini e i suoi attori ci avevano lasciato con gli occhi rivolti al cielo, con il rumore degli aerei, con il suono del vento, con una croce e un carrello di merci sulla cui luccicanza si depositava la polvere, e il veleno, di una civiltà terremotata. Le note di “C’era una volta in America” ci raccontavano come moriva l’Occidente, alle nove di una mattina di settembre del 2001: incendiato dai propri stessi furori, divorato da un delirio di immortalità.
A distanza di un anno, Bikini Bum Bum si apre, almeno concettualmente, là dove Nnord si chiudeva, o forse un po’ prima. Nel suo abito da demiurgo, Roberto Latini muove con mani di carta argentata i pensieri. Il suo corpo è inabissato a metà nella collina bianca, nella grande gonna di Winnie, la protagonista di Giorni felici di Samuel Beckett: una figurazione ancestrale che del testo trattiene solo una frase (“Un altro giorno divino”), dando il là ad un viaggio intimo, irriducibilmente teatrale. Nell’interstizio terrifico di tempo tra la vita e la morte, un attimo prima dello schianto, quando però i passeggeri dei due aerei e gli abitatori delle Twin Towers e il mondo intero si stanno già preparando al trapasso, si produce un’accelerazione del pensiero. E’ in quella precisa zona – sismica, dolcissima, e irripetitibile perché prossima alla morte – che il regista di Fortebraccio Teatro si è collocato con Bikini Bum Bum, il cui sottotitolo, Due pezzi intorno ad una fenomenologia dello spirito, rivela non tanto l’imparentamento con l’opera di Hegel, quanto la scabrosa, intraducibile, volontà, di usare il teatro – i corpi le voci gli oggetti di scena e le parole – come strumenti di un teatro dell’accadere, dove attore e spettatore cadono insieme in un vortice: “Mentre Nnord era una specie di diario collettivo, Bikini Bum Bum ha un aspetto fenomenologico più preciso - dichiara Latini - . Se la fenomenologia è la scienza di ciò che appare, di conseguenza è la scienza di ciò che non è, o meglio la scienza di ciò che non è quello che sembra. Tutto ciò e magnificamente, o poveramente, teatro, perché sulla scena niente è quello che sembra”.
Il riferimento all’11 settembre agisce su un piano puramente connotativo: l’immagine di due rami rinsecchiti, dipinti di azzurro, da cui cadono gocce di sangue che si riversano su pile di giornali, e poco più lontano due strisce di vernice rossa spruzzate sulla parete bianca della collina di Winnie, concepita come macchina di svelamenti e apparizioni. E c’è, in alcuni brani del testo, il richiamo ad una sorella (gemella?), a qualcuno che se ne è andato, che ci ha lasciato soli.
Due Torri, due alberi, due sorelle, due gocce di sangue, due pezzi (il bikini) di teatro, per dire il gioco duale del teatro. E sono due gli autori dello spettacolo, Roberto Latini e Gianluca Misiti (compositore delle musiche), a cui si aggiunge Max Mugnai, che con le luci ghiacciate e notturne crea una cornice paurosa a questa bellissima danza dei “non ancora morti”.
Tutto questo prima e intorno a Bikin Bum Bum, spettacolo di poesia simbolista, fragile come i corpi e le menti che cuce sullo spazio scenico. Ma non è necessario che il pubblico venga informato della concatenazione dei pensieri che ha portato a questi due pezzi di raffinato teatro, capace di scuotere nel profondo. Ognuno ci vedrà ciò che vuole: lo spettacolo chiede proprio un rapporto privato con lo spettatore, nel momento in cui si nega alla rappresentazione.
Descrivere tutte le scene di Bikini sarebbe un po’ come metterle in una tomba, consegnandole ad una forma chiusa. Perché quest’opera è essenzialmente poesia sensoriale che si avvita su un movimento preciso, quello del “cadere” (non a caso, tra Nnord è Bikini c’è uno spettacolo-saggio fatto a Pontedera, il cui titolo era Carillon cadere): sulla pista da pattinaggio arrivata appositamente dall’Austria, pavimento scivoloso e luminescente, in contrappunto con gli spostamenti macchinici della collina-gonna di una prestigiatrice - che è insieme la Winnie di Beckett, il Prospero di Shakespeare e Latini stesso, demiurgo e interprete di un teatro di spirito femminile -, gli straordinari attori si lasciano cadere per continuamente rialzarsi e di nuovo cadere. Sebastian Barbalan, Fabiana Gabanini, Guido Feruglio e Marco Vergani, con lo stesso Latini, da soli o in gruppo, cadono dall’alto, appesi ad una fune, recitando il verso più bello dello spettacolo (“Voglio morire, no, non voglio morire, voglio solo il desiderio di morire”), oppure mentre pattinano, chiusi nei loro pensieri, o quando recitano la fatica del vivere dalla mattina fino alla sera. Cadono posseduti da una danza rave. Cadono, nominando la bellezza della neve, del mare, dell’amore e della morte. Cadono mentre leggono la toccante poesia “Perlamore”, che suona come un omaggio a Perla Peragallo e a Leo de Berardinis, i maestri che se ne sono andati a distanza di un anno l’uno dall’altra. Sono tutti momenti di un circo spirituale - e spiritoso - che richiama alla memoria il teatro di Novarina e di Kantor, ma anche il cinema di Kusturica. Non somigliando però alla fine ad altro che a se stesso.

Pubblicato su "Liberazione" il 2/11/2008

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