domenica 16 novembre 2008

Il Mediterraneo a teatro: la forma dell'acqua


VENEZIA. “Voi in Italia siete pazzi! E’ troppo. Per me è troppo. E’ bello e mi fa quasi paura”. Abed ha un corpo piccolo è una faccia buffa, spiritata, un’ampia cicatrice sulla testa come segno permanente di un incidente che per lungo tempo lo ha tenuto in coma. Ha vent’anni e arriva da Hebron, città di fango fili spinati immondizia fucili puntati e scuole magnifiche per l’infanzia. Tre mesi fa è entrato a Gerusalemme per la prima volta dopo dieci anni (ai palestinesi dei Territori Occupati non è permesso avvicinarsi alla Città Santa) e oggi, grazie allo stesso progetto curato dall’Eti Ente Teatrale Italiano - con la Cooperazione Italiana - e affidato alla pedagogia di Gabriele Vacis, è arrivato a Venezia, alla Biennale Teatro diretta da Maurizio Scaparro. Sta ascoltando i propri battiti del cuore amplificati da una macchina, dentro un cervello gigante e trasparente esposto all’Arsenale (Biennale Architettura). Tocca ogni istallazione come se ci fosse il fuoco dentro, e spalanca gli occhi ripetendo soltanto: “Siete pazzi”. Ivan invece, con la sua faccia da armeno scolpita nella porcellana, alza una mano per proteggersi gli occhi dalla luce fantascientifica che emana da una “stanza del subconscio” ideata dai newyorchesi Asymptote: “Per un attimo non ho visto più niente”. In un altro padiglione, Firas è ipnotizzato dalla danza di due ballerini di Forsythe in trappola dentro uno schermo circolare. Questa visita all’Arsenale entrerà direttamente nell’esibizione del giorno dopo, quando di fronte ad un pubblico di studenti universitari i tredici adolescenti palestinesi (hanno tra i 15 e i 20 anni) faranno un primo studio sul tema dell’Amleto, una spirale di corpi in tensione, danza bucata di frammenti sensoriali, dentro cui le scene di Shakespeare emergono nella lingua araba come lame luccicanti.

Sans Papiers

Il workshop di Vacis non è che uno dei fertili movimenti di questa edizione della Biennale Teatro significativamente focalizzata sul Mediterraneo, “luogo complesso di incontri e correnti”, che ci giunge non attraverso spettacoli chiusi ma assecondando la forma provvisoria e cangiante dell’acqua. Un Laboratorio Internazionale di Teatro, dove vengono cuciti su corpo “i miti ritrovati”, “il mare di Shakespeare”, “le lingue franche dei porti del Mediterraneo”, i racconti orali (“C’era una volta”), e le storie dei “sans papiers”. “Ci sono parole che girano intorno all’identità di nuove e vecchie generazioni di immigrati, dall’Oriente, dall’Africa, dai vari Sud e che in Europa si confondono con la fatica del vivere civile e di nuovi traguardi culturali, penso quindi a parole come sans papiers, banlieus, integrazione, passaporti, frontiere - dice Maurizio Scaparro - Con questo Laboratorio Internazionale vogliamo verificare se esiste un posto per l’arte in generale e il teatro in particolare dove si possa cogliere la grande potenzialità e l’energia di questi mutamenti che devono cimentarsi anche con la lingua e i gesti dei sentimenti, spesso vietati dal codice di comportamento di tanti difficili situazioni di vita”.
“Ciao: da Est ad Est”: nel suo workshop di teatro ed intercultura, Corrado Veneziano ha messo a confronto strumenti diversi di una lingua scritta mostrando quanto biglietti ferroviari, cartoline, inserzioni pubblicitarie possano contenere nei loro minuti segni più storie di quante non ne contenga un libro.

Gli studenti italiani dietro la porta di Fatima

Ed è un viaggio di morte e rinascita quello disegnato sulla scena da Roger Assaf, il grande regista libanese che è stato insignito del Leone d’Oro per il Teatro, presente a Venezia con un laboratorio (”Il cantiere del Girasole”) e uno spettacolo, La Porte de Fatima: sullo schermo detriti di una città violentata, l’immagine di una sposa fotografata in riva al mare, e il ricordo dei bombardamenti israeliani del luglio 2006 nelle affabulazioni legate da un ritmo sincopato, materico, del discorso. “Beirut macina storie e memorie come cemento in una betoniera” dice il cantastorie, ed è catarsi: i ragazzi di Gerusalemme Est, compresi Abed, Ivan e Firas, sono in sala e alla fine vanno ad abbracciare gli attori. Perché è una storia comune di assedio e di fuga quella che hanno sentito raccontare. Ma è ai loro coetanei funestati da altri pericoli che giudica non meno gravi che Assaf dedica il suo Leone d’Oro: “Mi associo a tutti quei giovani italiani che stanno lottando per la cultura, per l’intelligenza, contro la plutocrazia, contro il danaro. Voglio che lo sappiano. Io sono al loro fianco”.

Pulcinella nelle banlieues

Il Laboratorio Internazionale di Teatro durerà fino al 29 novembre, con decine di altri incontri, prove aperte, proiezioni di film tra cui quelli di Pasolini viaggiatore del Mediterraneo. Lo stesso Scaparro terrà un laboratorio sulla narrazione (“C’era una volta”), mentre il suo film verrà proiettato il 18 novembre al Teatro Malibran (ore 20.30). Opera delicata e nevralgica, presentata alla Festa del Cinema di Roma, L’ultimo Pulcinella è l’anatomia di una passione. Nella sua immaterialità, il teatro viene raccontato come un bisogno primario, al pari dell’acqua e dell’elettricità. Già la prima scena ci fornisce la direzione del film: Massimo Ranieri fa un’audizione per il ruolo di Pulcinella, che l’impresario (Antonio Casagrande) giudica ormai una reliquia, un simbolo d’altri tempi: per questo lo liquida in un modo volgare e impietoso, non risparmiandogli l’umiliazione di fronte al figlio (Domenico Balsamo) che l’aveva accompagnato. Un’ouverture fulminante che non ha bisogno d’altro che di un volto (quello di Massimo Ranieri, scolpito in una sofferenza che non rinuncia al sogno) e di poche violente battute (quelle dell’impresario), per dire la caduta di un uomo, e la scomparsa di un’epoca. Sembrerebbe annunciare una storia tutta italiana, ma lo scenario cambia velocemente: la Napoli dei misteri arcaici si eclissa presto per lasciare posto ad una Parigi meticcita, altrettanto enigmatica nei suoi impasti sonori e nei movimenti delle sue creature randagie, alla ricerca di un senso esistenziale. Nella periferia della capitale francese l’ultimo Pulcinella va a cercare il figlio, fuggito da Napoli dopo aver assistito ad un omicidio di camorra. Da questo momento in poi, il film prende una piega inusuale, che scompagina le attese rispetto alle variazioni che la relazione tra i due potrebbe prendere. Quasi senza parole, padre e figlio trovano il modo di avvicinarsi, grazie alla complicità della madre (Valeria Cavalli) che li raggiunge a Parigi, di un professore della Sorbonne (Jean Sorel) e della sua trasognata assistente (Margot Dufrene). E c’è una figura mitologica, una superba Adriana Asti, vecchia attrice in disuso, oggi custode e proprietaria di un teatro in cui si è seppellita, nell’esercizio amaro del ricordo. E’ in questa zona quasi magica che si intravede il miracolo dell’integrazione: Massimo Ranieri trova la forza per mettere su uno spettacolo che coinvolge gli amici del figlio, i ragazzi delle banlieues, maghrebini, disoccupati, piccoli spacciatori, creature di un dio minore che la polizia prende a manganellate, nel tentativo di reprimere la cultura, unico veicolo di conoscenza ed emancipazione. La maschera antica di Pulcinella si confronta con la maschera -impenetrabile, dura - dell’antisommossa. Teatro a cinema, ma anche cinema a teatro, un omaggio a Rossellini (lo spettacolo che la compagnia vorrebbe interpretare parte da un soggetto inedito del maestro del neorealismo italiano) e alla storica scena italiana a Parigi: L’ultimo Pulcinella è indubbiamente un film politico. Dove la periferia francese diventa metafora di un mondo in ebollizione: un mondo precario, vulnerabile e affamato, in cui l’arte trova il proprio nutrimento terrestre.

Pubblicato su "Liberazione/Queer" del 16/11/2008

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