lunedì 3 novembre 2008

Il Sogno di mezza estate di Ronconi, quando rivive il piacere del testo


MILANO. Sogno di una notte di mezza estate è una delle opere più frequentate di Shakespeare. Piace ai registi di tradizione - convinti che in fondo basta creare un po’ di confusione dentro una foresta di finte quinte per sfornare uno spettacolo d’abbonamento– ma piace anche ai giovani artisti più spregiudicati: recentemente, Thomas Ostermeier e Constanza Macras hanno interpretato il Sogno come il perfetto habitat di uno sballo da sabato sera, facendo entrare il pubblico dal retro del palcoscenico per coinvolgerlo sensorialmente in un party psichedelico, dove corpi maschere e oggetti subivano un processo di anarchica erotizzazione.
Ed è, al fondo, erotica, anche la lettura che ne dà oggi Luca Ronconi, al suo quinto Shakespeare. Ma, a differenza del lavoro di Ostermeier, che si esauriva in un gioco innocuo a bassa elettricità, e a differenza anche delle decine di messinscene più rasserenanti, risolte in chiave magica, il direttore artistico del Piccolo si conferma acuto filologo della scena dimostrando di non essersi fermato all’apparenza ma di aver centrato la fluttuazione di significante di ogni singola parola del testo.
Nello spettacolo, tutto viene “scritto”, e quindi “letto”, in tempo reale, comprese le scenografie di Margherita Palli: le cinque lettere che compongono la parola “Atene” designano lo spazio bianco della città, mentre la parola “Foresta” subisce un processo di ingrandimento e scomposizione a vista, entrando in relazione con i corpi degli abitanti della notte. Una terza parola, “Luna”, campeggia in alto, con le sue lucine da music-hall. Ed è proprio il riferimento metonimico al music-hall a fare da spia, da segnale luminoso, in una messa in scena che slitta da un genere all’altro (dal teatro elisabettiano tourt court ai riferimenti neoclassici fino appunto al musical) in modo leggero, tenendo sempre presente la matrice popolare del teatro shakespeariano.
Non solo le scenografie, ma la recitazione stessa, e i movimenti degli attori, obbediscono ad una “messa in lettera” dell’opera, dove, paradossalmente, proprio dall’insistito appello al testo così come è scritto si ricava un senso di ambiguità, di felice polisemia. Prendiamo la scena in cui Elena dice ad Ermia che vorrebbe possedere la sua bellezza: c’è, in quel linguaggio passionale, una spinta omosessuale - o meglio di ossessione-attrazione per una copia leggermente variata di se stessi - che giustamente Ronconi intercetta e spinge in senso corporeo. “La poesia è un elemento di concretezza, non è ornamento –dichiara il regista in un’intervista – pertanto le metafore vanno ricondotte al loro significato reale. Le metafore devono servire a rendere evidenti le cose, meglio ancora a rivelarti un’altra realtà della stessa cosa”.
Sono tre i livelli mesi in campo da Shakespeare che Ronconi chiarifica su una scena razionalista: il piano mitico (rappresentato da Teseo, duca di Atene, e da Ippolita, regina delle Amazzoni), l’orizzonte delle coppie pre-borghesi regolate dall’universo giuridico (Lisandro ed Ermia, Demetrio ed Elena), l’universo non mortale degli abitanti della foresta (Oberan, Titania Puck e la corte degli elfi) e, infine, il mondo degli artigiani, i lavoratori del teatro che, attraverso la preparazione di “una commedia in cui non c’è una sola parola appropriata e non un solo attore adatto”, fanno interagire e saturare gli altri livelli di rappresentazione. Obbligando il mondo di sopra, che cerca a suo modo di regolamentare con divieti e proibizioni le passioni, a farsi contagiare dalle ombre del mondo di sotto.
L’opera inizia con le annunciate nozze di Teseo e Ippolita che dovrebbero celebrarsi insieme a quelle di Ermia e Demetrio. Due matrimoni che le donne prendono come costrizioni. Per ribellione, Ermia decide di perdersi nella foresta con l’amato Lisandro sfuggendo così al volere paterno. Mentre Elena insegue Demetrio che le fugge. Nell’oscurità di questo campo onirico (e non magico) Puck somministra i suoi filtri d’amore, scompaginando i desideri: per un breve lasso di tempo, Lisandro e Demetrio impazziscono per Elena, mentre Titania, regina delle Fate, si innamora di Bottom, l’attore con la testa di asino. Con l’azione di un secondo filtro, le cose si rimettono a posto: una volta tornati ad Atene, saranno celebrate le nozze di Teseo e Ippolita, Ermia e Lisandro, Demetrio ed Elena, non dopo aver assistito alla messa in scena della “lacrimevolissima tragedia di Piramo e Tisbe”. Ronconi sceglie di far interpretare Teseo e Oberon, re delle Fate, allo stesso attore (Raffaele Esposito), mentre Elena Ghiayruv recita il doppio ruolo di Ippolita e Titania, sancendo così la contiguità tra il mondo mitologico e l’universo onirico: è dopo aver incontrato la sessualità nella sua forma più irrazionale (l’amore con l’asino), che Ippolita, regina delle Amazzoni, accetta il matrimonio con Teseo. Non è di amore che Shakespeare parla nel suo Sogno di una notte di mezza estate, ma di opposizioni semantiche: eros e matrimonio, legge e istinto, città e foresta, coercizione maschile e ribellione femminile.
“L’altra realtà della stessa cosa” scorre davanti ai nostri occhi con la lucidità del ragionamento e la forza di una visione geometrica, a cui contribuiscono le luci di A.J.Weissbard e i costumi di Antonio Marras virati verso un Novecento sincretico. E’ la lingua stratificata di Shakespeare quella che “leggiamo”, attraverso la scrittura per corpo voce e scenografia, ma è anche un preciso metodo di lavoro – quello ronconiano – che quando non si sclerotizza nello stilema “ronconiano” (e non è questo il caso) ci regala un irriducibile “piacere del testo” combinato con un preciso “piacere del tempo” (tre ore e mezzo che lo spettatore non patisce).
Alla prima, convinti applausi, soprattutto per il Bottom di Fausto Russo Alesi, l’Elena di Melania Giglio e il Puck di Riccardo Bini. Al Teatro Strehler di Milano fino al 23 gennaio.

Pubblicato su "Liberazione/Queer" il 2 novembre 2008

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