sabato 25 ottobre 2008

L'Inferno di Romeo Castellucci: dire addio a questa terra


MODENA. Non un letto di fiamme e corpi che urlano nel tormento del dolore. Nessuna macchia di sangue, se non alla fine, come vernice rossa che scorre con la sua perturbante bellezza sulla schiena di un cavallo bianco. Non ci sono domande né risposte. Nessuna storia. Sparisce Virgilio, sparisce la lingua antica, la lingua che incanta. Dell’ Inferno dantesco, Romeo Castellucci lascia solo il processo conoscitivo, il primo pericoloso movimento di un uomo che entra nel mezzo del cammin della sua vita in una selva oscura. Dopo aver debuttato con enfasi la scorsa estate al Festival di Avignone (“Le Monde” ne aveva parlato come di “qualcosa che non si era mai vista prima d’ora”), la prima parte della “Divina Commedia” della Socìetas Raffaello Sanzio è arrivato finalmente in Italia, in tre repliche all’interno del Festival “Vie-Scena Contemporanea” curato dall’Ert-Emilia Romagna Teatro. Uno spettacolo su cui pensavamo di sapere tutto perché tutto sembrava essere stato descritto, e che invece svela altri dettagli e prospettive ad una nuova visione. Pur avendo dovuto adattare sensibilmente l’opera (che era stata rappresentata alla Cour d’Honneur del Palazzo dei Papi), piegandola all’orizzontalità e alle ridotte capacità di un palcoscenico all’italiana (Teatro Comunale di Modena), Romeo Castellucci non ha avuto paura di addomesticare la sua creazione. In fondo, è un gesto di coraggio, e di generosità, nei confronti del pubblico. A prima vista, Inferno è un lavoro glaciale e disomogeneo nella composizione drammaturgica. Ma è gigantesco il suo lascito, in termini di immagini originarie che, una volta finito lo spettacolo, sono capaci di lavorarci dentro.
Perché la natura di questo Inferno è, prima di tutto, visiva. Nel lento camminare di uomini donne vecchi e bambini vestiti di colori chiari, non è difficile risentire il passo enigmatico dei gruppi umani di Bill Viola che arrivano dal nulla e si perdono nella nebbia, obbedienti ad una chiamata oltretombale. La luce che si stende su quei corpi affacciati sull’abisso richiama poi, di certo involontariamente, l’estetica di Incontri ravvicinati del terzo tipo, una delle opere più misteriose di Spielberg, anch’essa materia di trapassatoio. Ma è ad Andy Warhol che Castellucci ha riferimento, dichiarando con citazioni puntuali il proprio debito nei confronti della pop art.
Nella modulazione leggera, quasi immateriale, di scene corali e improvvisi assottigliamenti, gli abitatori di un luminoso inferno si consolano e si uccidono a vicenda, mentre dicono addio a questo mondo. E sono d’amore (“Ti amo, ti amo, ti amo…”) e d’angoscia (“Dove sei?”) le poche parole pronunciate nel corso dello spettacolo. Dove dietro quel “ti amo” riverberato all’infinito rinasce il verso pronunciato in un vecchio spettacolo della Socìetas, quell’Amleto di croci e lampadine fulminate che recitava un unico straziante mantra, “I do love you mom”.
Dannati per aver troppo amato. Dannati per essere stati uomini e aver desiderato perdersi e morire. Sono queste le creature di Dante/Castellucci che per entrare all’Inferno si fa azzannare - con una tuta indosso ma a viso scoperto - da due cani furiosi. Un inizio scioccante stemperato dalla pittura dei quadri successivi. Se, da una parte, un cubo di plexiglass ci apre la visione terrifica di un giardino d’infanzia, in un momento successivo lo stesso cubo diventa trampolino di lancio per cadute libere nel vuoto. Nella più totale rarefazione, si consuma la scena più bella di questo spettacolo-soglia dove con un semplice gesto di mani che tagliano le gole degli amici si compie una strage silenziosa: ed è un bambino il più feroce quando toglie la vita a un vecchio uomo.
Nella speranza che Inferno trovi il proprio legittimo spazio di visione in altri contesti teatrali, il pubblico della Socìetas Raffaello Sanzio potrà intanto assistere a due repliche del Purgatorio il 28 e 29 ottobre al Teatro Valli di Reggio Emilia. “Il Purgatorio è il doppio della terra e lo spettacolo è perciò la ripetizione della vita umana conosciuta e vissuta nelle incombenze quotidiane e familiari –si legge nelle note della Socìetas che introducono la seconda cantica. L’ambiente dominante è ancora quello della città, non più secondo una vista guastata dalla dannazione, che ritrae gli uomini in masse indistinte e vischiose, bensì come una società congegnata per far funzionare ogni suo elemento. Nella messa in scena non c’è posto per il trionfo della civitas, piuttosto per l’anonimato, l’interscambiabilità e la solitudine definitiva degli uomini che li condanna all’oblio della morte”.
Dopo questo passaggio nella “narrazione” di un interno familiare, la luce si rarefa del tutto per permetterci di restare immobili nella contemplazione di un attimo, una pura folgorazione. Il Paradiso è un’installazione (dal 4 al 9 novembre nella Chiesa di Santo Spirito di Cesena) dove la vista dell’assoluto si dà per fuochi minimi. Spariscono i corpi. Al posto dei personaggi, “le opalescenze di un vetro su cui vanno a schiantarsi figure sempre più astratte”: abitatori di una casa deserta e ordinata, che i beati (gli spettatori stessi) attraversano come fantasmi entrando in tutte le sue camere.

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