lunedì 20 ottobre 2008

Quante sono le menzogne: Delbono porta in scena la tragedia della Thyssenkrupp

LA RECENSIONE

TORINO. All’inizio, c’è un operaio che arriva in fabbrica, si toglie i vestiti civili e indossa la tuta da operaio: prima di cominciare il lavoro, piega diligentemente le sue cose in un armadietto triste, e mentre li deposita sembra che licenzi anche la sua umanità, che la metta a dormire. Poi ne arriva un altro, e un altro ancora, fino a Bobò che prende il casco giallo, icona dell’operaio metallurgico, e lo indossa nel suo modo lunare, picassiano. Il rito della vestizione/svestizione si compie sette volte. Sette come gli operai bruciati vivi nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 nel rogo della Thyssenkrupp. Sette sacrifici umani scambiati per fatti accidentali. Nel più angosciante silenzio, Pippo Delbono introduce le figure del suo viaggio, un’ouverture che parte dalla realtà colta nella sua violenza ordinaria, là dove l’omicidio si nutre delle scorie di una civiltà opulenta, della polvere di un tavolo d’ufficio, del ferro arrugginito di una sedia dove un corpo anonimo viene buttato ogni giorno, come un sacco.
Con La Menzogna, spettacolo inaugurale della nuova stagione dello Stabile di Torino diretto da Mario Martone, Delbono ci fa sentire l’odore pestilenziale di una fabbrica-mondo, declinando le proprie ermetiche visioni sul piano di una composizione poetica che non si assesta su una linea drammaturgica precisa attirando a sé musica, video, danza e pittura in un respiro irregolare e affannoso come la vita stessa.
Dallo schermo, il padre missionario Alex Zanotelli parla (dai microfoni di una rete televisiva) di povertà, economia e finanza, disegnando le coordinate di un mondo al collasso dove 300,400 famiglie detengono la metà della ricchezza mondiale; nello stesso video, appare, come un lapsus, un lavoro astuto dell’inconscio, una vecchia pubblicità della Thyssenkrupp che promette benessere e futuro. Queste le cose dette: le verità e le menzogne. Ma sono quasi le uniche parole - messaggi registrati e riportati come da un altro pianeta- in uno spettacolo che d’improvviso mette le radici sottoterra.
Da una landa mercuriale, nascono le figure di un bestiario - preti e ballerine in abiti sadomaso, le teste coperte da tessuti che disegnano forme astratte -, ospiti di un circo immaginifico che evoca 8 e ½ di Fellini. Nella parata livida del potere, ciascuno assume la sua posa plastica, abitando un traliccio fatto di scale e sottoscale, luoghi d’inferno, nascondigli dove non passa mai nessuno. Eleganti e sornioni, questi uomini e queste donne sessualmente potenti iniziano un ballo in maschera assecondando le sonorità di vecchie canzoni francesi. Festeggiano, forse, il sacrificio appena compiuto. Ballano sui cadaveri che hanno allegramente seppellito.
Mentre lo stesso Delbono si prepara a scatenare il verso ancestrale, il rumore vero di quelle anime nere. Avvitato in un abito padronale, con i capelli unti di brillantina, il regista-attore si fa demiurgo di uno spettacolo “osceno”, dove i preti chiudono a chiave donne mezzo svestite dentro gli armadietti della fabbrica.
Una macchina fotografica, un microfono e infine un manganello diventano progressivamente strumenti di amplificazione di una realtà occulta, detonatori d’irrazionalità. Nel verso bestiale, nella risata satanica riverberata all’infinito, agisce la rappresentazione non verbale di un sistema totalitario che ha ucciso padri e figli in un pasto totemico, dove il totem è il capitale.
Gli operai tornano nella parte conclusiva dello spettacolo, ormai privi di vita, corpi bruciati da portare pietosamente in braccio e da deporre sul palcoscenico, per esporli, inermi, allo sguardo di quel pubblico che Delbono qualche minuto prima aveva fotografato, cercando forse nei visi della gente comune una risposta alla questione della menzogna.
Tema che Delbono, nell’ultimo movimento di quest’opera a più finali, riporta drammaticamente a se stesso, esponendosi nudo come Gianluca, come Bobò, come le creature più disarmate della sua compagnia che i fasci di luce hanno il potere di ritagliare come personaggi di antiche pitture. Ed è di sapore pasoliano la confessione degli ultimi quadri: “Scusate per la menzogna che mi porto dentro dal tempo che mia madre mi lavava…per tenermi lontano dagli sguardi, per avermi tutto per sé…Scusate per la menzogna che mi porto dentro dal tempo in cui… tra gli specchi…spiavo mio padre svestito”.
Nonostante qualche superflua nota sentimentale e la disomogeneità di una composizione che dichiaratamente si annuncia come primo studio sul tema, La Menzogna ci regala alcuni quadri folgoranti di stile bauschiano. E c’è, nel piano sonoro di quest’ultima opera di Delbono - tra i miagolii dei corpi inermi e i latrati degli assassini – un sedimento arcaico di una violenza che, nei suoi riti sacrificali, rivela una costante antropologica: “I meccanismi fisiologici della violenza variano ben poco da un individuo all’altro, perfino da una cultura all’altra – scriveva René Girard, citando a sua volta Anthony Storr (Human aggression) -…niente assomiglia maggiormente a un gatto o a un uomo adirato di un altro gatto o di un altro uomo adirato”.
La Menzogna è in scena alle Fonderie Limone di Moncalieri fino al 2 novembre.

Pubblicato su Liberazione il 23 ottobre 2008




L'INTERVISTA

Ecco l’immagine di una fabbrica che brucia e dei sette operai che se ne vanno, uno ad uno, con i loro corpi accartocciati, le urla che una volta sono state umane. La morte bianca si accende di rosso e fa il giro del mondo. La società dello spettacolo sa come gestire il dolore, come mangiarlo vivo, in un consumo cannibalistico di notizie, immagini strazianti e dichiarazioni retoriche. Poi arriva un artista: gli si chiede di fare un’opera di teatro ispirata ai fatti della Thyssenkrupp. In quel momento Pippo Delbono sta leggendo Kafka, vorrebbe tanto starsene da quelle parti, nel cono d’ombra di un martirio che non ha mai avuto nomi cognomi indirizzi e cronache di giornale, ma solo il bruciore di una spaventevole assenza, una solitudine che spacca le ossa. “Non mi piacciono i temi contingenti. Come faccio a sapere quello che è veramente successo dentro la Thyssenkrupp?”. Accetta però di entrare dentro quel rogo e allora comincia a chiedersi: cosa dice l’immagine di una fabbrica siderurgica che brucia? Cosa si nasconde dietro quell’incendio?

Incendi

“Avevo un solo modo per capirlo – racconta Delbono - ed era entrare dentro la fabbrica. E’ un posto di un’inquietudine totale: armadietti che sembravano quelli di una prigione; un fornelletto arrugginito con una caffettiera sopra; una doccia anch’essa arrugginita che a quanto pare veniva usata nel caso in cui bisognava togliersi l’acido dal corpo (perché quando ci si accorge di essere coperti d’acido non c’è altra soluzione che lavarsi bene e a lungo). Tutto questo mi ha sconvolto più del luogo effettivo dove c’è stato l’incendio… Mi è venuto improvviso, appena sentito l’odore del ferro bruciato, un ricordo di quando ero piccolo: mio nonno mi portava ogni tanto a vedere l’officina dove lavorava il ferro. E ora sentivo lì lo stesso odore. Tutta la vita mio nonno aveva lavorato in quella piccola fonderia, e ne era orgoglioso. E anche quando era diventato ormai vecchio e malato nella mente, si alzava a notte fonda per andare in officina a lavorare ancora”.
E’ da questa passeggiata all’inferno che nasce il primo studio su La Menzogna: “E’ importante prendere spunto da un incendio ma soltanto se quest’incendio ne fa esplodere altri, solo se entriamo in questo dolore non per compiangerci ma per vedere altri incubi ancora”. Il che significa mettersi ancora di più in pericolo, camminando in bilico su un traliccio, là dove si espongono le proprie stesse debolezze e impurità: “La menzogna nel nostro paese è dappertutto, anche dentro noi stessi. Ed è faticoso attraversare il proprio stesso buio. In genere siamo più bravi a vedere il buio fuori di noi”.

Il valore della “testimonianza”

Lo spettacolo è frutto di una coproduzione italo-franco-polacca (Stabile di Torino, Emilia Romagna Teatro, Teatro di Roma, Théatre du Rond-Point di Parigi, Maison de la Culture d’Amiens, Malta Festival di Poznan), e ribadisce, nelle pratiche sotterranee, la singolarità di una poetica che allaccia arte e vita, nella convinzione che un gesto può dirsi politico solo quando è capace di farsi “testimonianza”, azzardo personale, anche sul piano delle relazioni e dei comportamenti privati: “La produttrice francese della mia nuova opera filmica è venuta recentemente in Italia e ha dormito nel letto della mia stanza d’albergo, mentre io ho dormito da un’altra parte…era un modo per entrare dentro le mie visioni e dire “sì, ci siamo, andiamo avanti”: un comportamento molto diverso e molto meno normativo rispetto a quello che può avere uno qualsiasi dei nostri controllori della cultura”.


La Torino dei dimenticati

Sotto il segno della “testimonianza” va letto anche il rapporto che il regista-attore ha instaurato con la città e i luoghi della Torino operaia. “Delbono ha intuito l’importanza che Torino, col suo passato e la sua trasformazione attuale, può rivestire in questo momento di passaggio così cruciale dal punto di vista politico, e ha aderito non solo all’idea di far nascere qui il suo spettacolo, ma di farne per Torino una versione speciale, un debutto che sia anche un pezzo unico - dichiara Mario Martone -. Il luogo non poteva essere che le Fonderie Limone di Moncalieri, un teatro che contiene la memoria di una fabbrica”.
Ma quale è la Torino di Delbono? In questi mesi di prove, l’artista ligure ha vagabondato in luoghi “liminali” spingendosi ad interrogare le diverse “alterità” di un tessuto urbano screpolato e friabile, facendosi stupire e incantare da una serie di fantasmi molto reali che abitano gli angoli più periferici della città: un metodo “rabdomantico” che l’ha portato ad aggiungere sempre nuovo materiale umano a questo suo primo studio sulla menzogna sociale. “Torino è una città che si trasforma continuamente, un posto magico per uno come me che si perde sempre…Ed è molto bello farsi invadere dalle persone e dalle cose che incontri casualmente sulla tua strada. L’altra sera mi sono fermato ad osservare degli anziani che ballavano il valzer in una balera vicino alle Fonderie Limone. Uomini con donne, donne con donne: era un’immagine toccante, che mi parlava di un’Italia bella, un’Italia pasoliniana. Gli anziani portano una saggezza antica che noi abbiamo perduto…Sempre a Moncalieri, mi sono avvicinato ad un campo nomadi. Ogni giorno è un bollettino di guerra: arrivano da fuori per pestarli e massacrarli. Ma non c’è nessuno che li protegge? Non è possibile che si lascino massacrare i rom ogni giorno e nessuno fa niente. Anche a costo di sembrare politicamente scorretto, dico che questo è il vero problema del nostro tempo: il razzismo”.

Le tante menzogne

Ed eccola, allora, la menzogna, nei suoi spettacolari travestimenti: la menzogna del padrone che manda a morte un operaio e rivela, inconsciamente, il proprio potenziale omicida negli oggetti disfunzionali di una fabbrica triste, angosciante, un posto che va in malora: “C’è qualcosa che non mi quadra in quelle manopole, in quel telefono che non funziona. Quando sono entrato dentro la fabbrica mi sono sentito morire”.
La menzogna di una compassione oscena: “Spesso, quando ti occupi degli altri, stai solo facendo la carità, ma è di te stesso che ti stati occupando”.
La menzogna di chi, fra governanti, politici, commentatori, sindacalisti, enfatizza la “spettacolarità” di una tragedia per non vedere il cumulo di cadaveri ammucchiati in qualche altra parte dove hanno tolto i fari e la luce elettrica, oltre che la vita stessa: “La Thyssenkrupp è una tragedia “famosa” rispetto alla quale io non ho le risposte. Tutto quello che posso fare è di fare un viaggio attorno al dolore. Sono in questa fase creativa in cui provo a farmi penetrare da tutte queste cose che stanno succedendo, partendo da questo fuoco, da questo dolore, da quest’inferno, da questa condizione assurda, surreale, incredibile, ma anche vera. Lo spettacolo si lega a queste morti, ma poi non so verso quale direzione andrà”.

Bobò in tuta da operaio

Ad indossare la tuta di operaio, tra gli altri, c’è ancora una volta Bobò, il piccolo uomo incontrato tanti anni fa in un corridoio di un ospedale psichiatrico, diventato nel frattempo primo attore della compagnia, incoronato da “Le Monde”: “Quando Bobò si veste da operaio, è come se indossasse il costume d’Arlecchino della Commedia dell’Arte…Quando ho conosciuto Bobò, era stato chiuso in un manicomio per 45 anni: sordomuto, analfabeta, microcefalo. Allora lo guardavo con l’aria di chi pensa: “Io ti salverò!”…Poi, quando ho cominciato a scendere più in basso di lui, la nostra relazione è molto cambiata. Oggi lui può fare qualunque cosa in scena, persino raccontare delle balle, prendersi gioco di noi. Bobò è un lupo ancora libero: in un paese in cui nessuno di noi è più libero, la sua libertà è di vitale importanza”.

Pubblicato su "Liberazione" del 17 ottobre 2008

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