domenica 12 ottobre 2008

Le borgate, astronavi del futuro


Col precedente libro, aveva profetizzato che il mondo sarebbe diventato gay. Ora afferma che il mondo si sta trasformando tutto in un’immensa borgata. E infine si chiede: “non sarà perché mi è mancato il coraggio di ammettere che per me un borgataro gay è diventato tutto il mondo?”. “Il contagio”, l’ultimo clamoroso romanzo-confessione di Walter Siti, “divina mimesis” di un universo maciullato e sanguinante, è diventato spettacolo teatrale. Un’opera quasi rock con le musiche dei Radiohead a fare da detonatore di un affresco brulicante di vita, dove i fili delle storie si legano armonicamente, distillando in una partitura lieve una materia nera nerissima che si cuce sulle scorie del Primo Mondo. Firmato da Nuccio Siano, lo spettacolo è interpretato da quattordici notevoli attori – oltre allo stesso Siano, Tiziana Avarista, Marina Biondi, Michele Botrugno, Alessandra Costanzo, Riccardo Floris, Carmen Giardina, Fabio Gomiero, Mario Grossi, Anna Maria Loliva, Federica Marchettini, Isabella Martelli, Maurizio Palladino e Maurizio Tesei - capaci, nelle loro differenze, di veicolare con realismo la lingua ferita e impietosa di Siti, riuscendo a scolpirsi come figure dantesche in caduta libera.
Il regista/attore legge, in scena, alcuni brani, evocando le creature del romanzo che si materializzano davanti ai nostri occhi in una danza che li infiamma senza seppellirli vivi. Pur in una estrema povertà e semplicità di mezzi scenici, “Il contagio” richiama, per pura connotazione, il “Pasticciaccio”, spettacolo storico di Ronconi, che aveva insistito, nella sua plastica messa in spazio dell’opera-mondo di Gadda, sul continuo travaso di elementi carnali e metafisici sulla linea sempre ambigua del crimine.
Altra è la Roma di Siti: non più via Merulana, ma Tor Bella Monaca come sintesi figurativa di ogni borgata vissuta come discarica dell’inconscio e deposito di antropologia nichilista (in maniera intermittente, anche di vitalismo pasoliniano), terra friabile su cui ogni personaggio invoca, furiosamente, il suo dio: non simbolo del Terzo Mondo, ma profezia di un mondo in costruzione dove sono gli immigrati i nuovi topi, i nuovi appestati.
Il romanzo di Siti ha una ricchezza impressionante di materiale documentario che si alterna ai capitoli puramente finzionali: un’opera tentacolare, che si sbriciola e si riedifica ad ogni pagina, evitando le tentazioni della sociologia, la pochezza della cronaca e le seduzioni dell’estetica, mentre costruisce figura dopo figura un inferno/paradiso contemporaneo. Non era impresa facile trarre una sintesi rappresentativa da questa “selva oscura” dove un lo stesso scrittore si offre nelle vesti di un Dante senza redenzione: non più colui che guarda e interroga, ma corpo tra corpi, untore e infetto, ingranaggio consapevole di una macchina in cui tutto è merce e il contagio è il veicolo di comunicazione tra esseri che, proprio vendendosi l’un l’altro, danno prova di avere un’anima.
Nell’adattamento teatrale di Siano, vengono salvate le figure principali di questa opera cosmogonica ambientata nella casa a tre piani di via Vermeer (nome di una via inesistente) che, come il palazzo di via Merulana in Gadda, diventa epicentro di eventi sismici: non uno ma tanti terremoti di vita quotidiana dove violenza umiliazione e plagio scivolano via come le notti e i giorni, nella condivisa accettazione di un destino che ammala. La macchina del desiderio gira intorno al prostituto Marcello, un “amorale mezzo deficiente” imbottito di anabolizzanti e cocaina, dietro la cui imago di culturista di istinti basici, aspirante suicida, si cela l’ombra di un amore realmente consumato da Walter Siti e raccontato nelle pagine forse più belle del libro: “I miei cinque anni con Marcello….Ho imparato a non distinguere il bene dal male…Ma più che un insegnamento, è stato un contagio: sono tornato da una spedizione etnografica e i bacilli si sono incistati nel mio sangue”. L’altra figura trainante è quella di Mauro, attraverso la cui ruvida storia di riscatto sociale arriviamo a spiare anche le infezioni dei quartieri alti (Prati) e la vita del carcere. Ma il cuore della storia si svolge nell’universo chiuso di via Vermeer, dove le madri e le mogli si affacciano alla finestra o si ritirano, avvolte nel loro malinconico e arruffato anacronismo: il movimento vitale/mortale dei desideri ruota intorno ai corpi maschili, nel cui commercio si stampa meglio il lavoro dell’inconscio.
Anatomico, angosciante, divertito, maniaco nelle analisi, bruciante di rabbia e di affamata sensualità, maledettamente giovane anche nei suoi ritratti senili, “Il contagio” è già un’opera classica, classica al modo di “Ragazzi di vita” di Pasolini, o ancor meglio de “I guerrieri della notte” di Sol Yurick (che nel suo ventre conteneva l’Anabasi di Senofonte): un racconto di mitologia contemporanea allacciato alle proprie profetiche visioni: “Le borgate sono il nostro domani, ma il domani non si deciderà in borgata; qui è l’arsenale del futuro ma gli ingegneri abitano nelle acropoli. Questa non è che una sterminata sala d’attesa, una folla brulicante alla fermata delle astronavi”.
Dopo aver debuttato a Caprarola al Festival “Quartieri dell’Arte”, “Il Contagio” è in questi giorni in scena al Colosseo Nuovo Teatro di Roma: fino al 26 ottobre.

Pubblicato su "Liberazione/Queer" 8 ottobre 2008

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