giovedì 4 settembre 2008

Quanto è bianco questo buio feroce


Sapevamo che era un’artista di sensibilità allarmata, speciale. Conoscevamo la sua autobiografia perché, candidamente, la racconta, nel teatro e nel cinema: la depressione, le accensioni e le cadute, la morte di un suo caro amico compagno fratello, l’arte vissuta come salvazione. Lo avevamo seguito nei suoi affondi nel terreno aspro, delicato, dell’emarginazione. Avevamo visto diventare Bobò, il piccolo uomo incontrato tanti anni fa in un corridoio di un ospedale psichiatrico, primo attore acclamato da “Le Monde”.
Ma con “Questo Buio feroce” Pippo Delbono si staglia sempre più nitidamente come grande regista, uno dei pochi, della scena teatrale europea. Alla prima milanese dello spettacolo al Piccolo Teatro Strehler, il pubblico tratteneva il respiro per non perdere un solo frammento di questa sinfonia visiva dove la carnalità dei corpi scarnificati, martoriati, scandalosi nella propria anomala bellezza, trova redenzione nel bianco ultramondano di un trapassatoio, stanza d’ospedale e camera di congedi solitari.
Ci sono vari modi di morire in versi. Tra questi, il modo scelto da Pippo Delbono ci arriva come un segno inequivocabilmente puro, non somigliante ad altro che a se stesso.
Il regista-attore ci chiede di fare un breve viaggio al termine della notte, ma è della luce in realtà che ha bisogno, del colore, del teatrino delle apparizioni, dove una flebo scende come un deux ex machina dall’alto. Figure in costume, cenerentole, infermieri, becchini e performer fuori sink, sono gli abitanti di questo circo magico delle differenze, che definisce i propri movimenti interiori in un disegno geometrico delle passioni.
Dalla mente di un uomo che muore di Aids nascono le creature che ha incontrato e quelle che, come poeta, ha evocato, nelle ore in cui si guardava spegnere. L’autobiografia dello scrittore americano Harold Brodkey fa cortocircuito con le ferite di Pippo Delbono, che di fronte a noi percuote il proprio corpo in una danza di vita che nasce dalla familiarità con la morte.
La materia dolorosa che attraversa l’opera trova in tutti i quadri di cui è intessuta la possibilità di sublimarsi su un piano di compostezza estetica. Un uomo anoressico canta, mezzo svestito, “My Way” di Frank Sinatra, spingendosi fino al proscenio, offrendosi come specchio alla nostra fragilità, alla parte abbandonica e inferma che ci fruga dentro. Nella sala d’attesa dell’ospedale ognuno aspetta il proprio turno. Bobò e Gianluca Ballarè entrano in scena vestiti da arlecchini e in un silenzio di tomba fanno una pantomima che ipnotizza e commuove: sono i saltimbanchi di Picasso, figure abituate a giocare con gli spettri.
Nella sfilata di creature oniriche illuminate da vestiti d’epoca re-inventati, scorre un sentimento d’attaccamento gioioso alla vita. Che esplode proprio in prossimità della fine, diventando accettazione della propria differenza. Può un uomo morire per troppo amore? Citando Brodkey, Delbono ci consegna il verso che racchiude il segreto di questo splendido spettacolo: “Forse la diversità è un’eterna giovinezza, un perenne amare i sensi e non pentirsi”.

Pubblicato su "Liberazione"

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