giovedì 4 settembre 2008

Gomorra: vita e morte non sono la stessa cosa

NAPOLI. Un ragazzo di ventisei anni prende un treno di notte: dalla Campania vuole arrivare in Friuli, perché ha qualcosa sulla vita da dire urgentemente a un morto. Per far questo non ha bisogno di nessuno, ci va solo, pure se è una notte d’inverno di quelle gelate che ad un altro - un altro qualsiasi che non sia questo ragazzo di ventisei anni in fiamme per l’amore (verso la sua terra) e per l’odio (contro la camorra) - avrebbe messo una terribile malinconia addosso.
Al cimitero di Casarsa, di fronte alla tomba di Pier Paolo Pasolini, il ragazzo è venuto a recitare una strana preghiera, il mantra di un combattente che al posto del kalashnikov ha imbracciato la parola: “Con i pugni stretti fino a fare entrare le unghie nella carne del palmo…iniziai ad articolare l’io so, l’io so del mio tempo. Io so e ho le prove…”.
E’ un episodio di “Gomorra”, il libro di Roberto Saviano, un pezzo di autobiografia che in qualsiasi altro contesto sarebbe sembrato stonato. Tranne che nel romanzo-reportage di un figlio disubbidiente di quest’Italia feroce, deviata, criminale, un testimone-scrittore che oggi, a soli 28 anni, vive sotto scorta e che, a differenza di tanti intellettuali “da camera”, si è messo veramente sulla stessa “linea del fuoco” di Pasolini (odiato da vivo quando faceva i nomi, celebrato da morto quando non poteva più parlare).
Una linea impervia, “antipatica”, incapace di mediazioni, preferita dal regista Mario Gelardi. Scritto assieme allo stesso Saviano (che non può presentarsi in teatro a causa delle minacce di morte, ma come un fantasma è apparso nel corso di una prova, per farsi scioccare da un’emozione che forse non si aspettava neanche lui), lo spettacolo riaccende le luci sul “teatro di parola”, sul “rito culturale” di cui Pasolini stesso parlava quando scriveva il suo manifesto, nel 1968.
Di qui la scelta di avere il personaggio dello stesso Roberto Saviano in scena, nella figura di Ivan Castiglione, perfetto alter ego dello scrittore, con la sua camminata veloce e leggera, la parlata diretta, chiara, addolorata e non impaurita, in grado di farci vedere l’ostinazione dell’insonne in battaglia, la solitudine rumorosa di chi è in ascolto e solo dopo aver ascoltato parla, e scrive.
Saviano dice che il teatro era nel destino di “Gomorra”, perché è a teatro che ancora gli esseri vivi incontrano altri esseri vivi per cercare insieme le verità dietro le forme della menzogna. Nello spettacolo, recitato con un realismo impressionante da tutti gli attori, la parola arriva come una scazzottata, una botta di freddo seguita da un improvviso calore che ti porta a sudare. Questo accade perché le scene si risolvono essenzialmente in azioni fisiche, in qualche caso minacciose, violente, come è la vita di questi ragazzi che Castiglione/Saviano incontra per il suo reportage all’inferno, sentendosi come “uno di loro”.
Picatchu (Francesco Di Leva) da grande vuole fare il boss, e quindi vuole possedere supermercati, negozi, fabbriche, vuole comprare donne, e poi vuole morire, “ma come muore uno vero, uno che comanda veramente. Ammazzato”. Mariano (Antonio Ianniello) è fissato con il signor Kalashnikov, anche se quel mitra inventato dal russo ha fatto più vittime della bomba atomica. Stakeholder (Giuseppe Miale Di Mauro), che ha studiato alla Bocconi, si è specializzato nello smaltimento e nel riciclo dei rifiuti tossici. E’ uno dei nuovi piccoli signori dell’apocalisse (suggerita dalle immagini che su uno schermo distillano macchie di grigio e di rosso). Non c’è vita sulla terra neanche per Pasquale (l’innocente Ernesto Mahieux), che ha cucito per poche centinaia di euro un abito spedito poi in gran segreto dai “padroni” ad Hollywood, perché Angelina Jolie lo indossasse alla notte degli Oscar. C’è infine Kit Kat (Adriano Pantaleo), il più piccolo, uno dei corrieri della droga che tutti vorrebbero proteggere ma lui non spara mai per primo e allora così si finisce ammazzati. La sua morte è consumata fuori scena, commentata dal pianto rabbioso di Picatchu.
Persino nella scena più drammatica si nega la catarsi. A questi ragazzi non interessa sedurre quanto raccontare l’immateriale linea dei soldi, la mostruosa forza imprenditoriale che fa molti più morti di quelli che si vedono sulle strade della provincia di Napoli (3700 dal ’79 ad oggi).
Accadeva anche nel libro. Saviano non è affascinato dai suoi nemici, non li rende epici, come ha fatto quasi interamente la letteratura di soggetto mafioso dal “Padrino” in poi. Se Totò Riina è capace di stare seduto due ore nella sua cella a contemplare la fiction che narra la giovinezza sua e di Provenzano, per contro mai nessun camorrista entrerà in teatro a vedere “Gomorra” senza desiderare di spaccare tutto.
“Vengo da una terra in cui ai ragazzi insegnano che vita e morte sono la stessa cosa – dice il personaggio di Saviano alla fine dello spettacolo - Ma io so che vita e morte non sono la stessa cosa e che fino al termine di questa notte proseguirò questo viaggio. Non datevi pace”.

Pubblicato su "Liberazione"

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