sabato 28 giugno 2008

“Chroma”, straziante libro di Derek Jarman dedicato ad Arlecchino

Leggere un libro e risvegliare i sensi. Allertarli al massimo grado. Sulle pagine, tracce d’inchiostro che dilatano la vista. E pensare che chi le ha scritte era ormai quasi cieco. Tradotto e pubblicato da Ubulibri, “Chroma” (123 pag, 18 euro) è molto più di un libro. E’ la sinfonia segreta di Derek Jarman, un film fatto solo di parole. L’ultimo sincero spettacolo di un uomo che sta morendo (l’Aids lo uccise nel 1994), e prima di consegnarsi al buio dedica la sua opera ad Arlecchino: “Arlecchino, pezzente e povero cristo con le toppe rosse, blu e verdi, briccone mercuriale con la maschera nera, acrobata aereo che salta, balla e fa le giravolte. Figlio del caos”.
“Chroma” è un’enciclopedia di stati estatici, una compilation di soglie percettive, composta quando il corpo è più di là che di qua e la mente si ostina a trascrivere tutto quello che ha visto in questa vita.
Regista scenografo e pittore inglese, Jarman scrive, dopo Goethe, il suo trattato dei colori. Su una partitura pluri-sensoriale dispone segni alchemici, pulsazioni della storia dell’arte, un omaggio a Marsilio Ficino, un altro a Leonardo; mischiandoli poi con i materiali di una tormentata autobiografia.
Ed ecco che il bianco appare dentro la cornice di una cartolina del 1906 che fotografa fanciulle eduardiane in lunghi abiti, figure solenni che ispireranno all’artista una serie di quadri. Colore di un’infanzia segnata dal desiderio di purezza e prematuramente segnato dal giudizio di Laio (è il padre che trova strano e angosciante quel giglio nelle mani di un bambino maschio), il bianco accompagnerà molto più tardi i gesti infernali della malattia: “Odio il bianco…Inghiotto le piccole bianche per restare vivo, per combattere il virus che sta distruggendo i globuli bianchi del mio sangue”.
Nel mezzo, esplode la trama di un desiderio dipinto di rosso: la passione omosessuale. “Quando gli altri dormivano nei loro letti, io decollavo per Soho, il quartiere a luci rosse. Il nostro mondo di checche era una gabbia di ombre”. Rosso è anche il più antico nome di colore (deriva al sanscrito “rudhira”) ed è rosso il volto della Sfinge.
A metà del libro, le luci si abbassano e la mente fruga tra le ombre, incontrando nell’oscurità Mantegna, Beckett e William Burroughs, maestri del grigio.
Inattesa, segue un’esplosione di vita annunciata dal verde, a cui l’autore di “Sebastiane” e “Caravaggio” non toglie l’aura paradisiaca da giardino dell’anima. Sono gli anni Settanta, gli anni delle avventure psichedeliche, dei viaggi percettivi: “Scoprii bombolette di un verde splendente quanto l’erba. Spruzzavo vaste tele e dividevo lo spazio con linee verticali d’una miscela bronzea che preparavo io”.
Col marrone, entra la malinconia, la lentezza dell’inverno che si trascina una coperta di lana: marrone anche questa.
E’ un sudario che protegge dai pericoli del giallo, inevitabili per chi si mette sulla strada dell’arte. Come “Vincent il pazzo che siede sulla sua sedia gialla stringendo le ginocchia al petto. Fuori di testa”. Mentre i girasoli appassiscono nel vaso vuoto.
Sonoro, quasi fragoroso, il giallo abbassa il volume e si trasforma in oro, detonatore di silenzi tombali.
L’arancione è solo una punta d’incantamento, un intermezzo buddista prima del salto nel buio.
Ecco finalmente il colore a cui Derek Jarman ha dedicato il suo ultimo film, “Blu”, del 1993: un unico fotogramma immerso nell” “International Klein Blu”, con la stessa voce dell’artista che narra della malattia, e la traccia sonora di Simon Fisher Turner composta per cucire le ferite.
Il blu è il Giappone, è l’eterno. E’ il colore del teatro, il sintomo di chi affoga nella finzione scenica. Nella sua terrificità, “trascende la solenne geografia dei limiti umani”.
Derek sa che la sua vista non tornerà mai più e fissa lo sguardo nell’immensità di un colore tondo, impossibile.
Attraverso il suo sguardo, capiamo che la malattia appartiene ai malati, che solo loro hanno il diritto di parlarne. Come, a rigor di logica, solo i morti possono parlare della morte. Che i vivi parlino della vita.
Arriva infine il nero dell’anima nera, della foresta nera, del mare nero. Gli occhi di Jarman si perdono definitivamente. Il suo corpo si abbandona al sonno profondo.
Arlecchino, maschera stracciona piena di colori, chiude per noi il sipario, pronto a riaprirlo ogni volta che un artista dimostrerà di amare così profondamente, e tragicamente, la vita.

Pubbicato su "Queer/Liberazione"

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