martedì 10 giugno 2008

Il progetto "Abuso" dell'Accademia degli Artefatti: quando dico "io" e voglio dire "tu"


Qualche volta diciamo “tu” e invece vogliamo dire “io”, e poi accade che diciamo “io”, mille volte lo diciamo, fino alla nausea, per la disperazione di non poter parlare all’altro oppure proprio per parlargli, nell’unico modo che troviamo. E poi capita di dire: “l’ho fatto per te”, suona falso ma si dice lo stesso, magari per santificare un misfatto. E quando te lo dicono, saresti tentato di non crederci - ormai sai come funziona “il falso io” - e invece ci credi lo stesso perché ti piace immaginare di essere amato mentre l’altro ti uccide. Con le parole, ti uccide. La serie delle manipolazioni quotidiane che operiamo (e subiamo) attraverso il linguaggio può moltiplicarsi all’infinito, ed è facile perdere la bussola. Lo sa bene Tim Crouch, geniale drammaturgo inglese che al tema della falsa comunicazione o della comunicazione doppia ha dedicato diverse sue opere, tra cui “My Arm” e “An Oak Tree”, realizzate in Italia dall’Accademia degli Artefatti, per la regia di Fabrizio Arcuri, in un progetto vibrante e teso come una corda di violino che si chiama, semplicemente, “AB-USO”.
“My Arm” è la storia di un ragazzo della provincia inglese che inventa, prima per gioco, poi per necessità, un modo paradossale per dimostrare a se stesso di essere vivo e costringere gli altri a guardarlo: un giorno porta il braccio sinistro sopra la testa e da quel momento in poi non abbandonerà più la posizione, causandosi infezioni, ricoveri, esorcismi, fino a diventare un oggetto d’arte, un fenomeno da esporre e scomporre in galleria, con l’aiuto - per forza di cose violento - di un fratello creativo. Quel braccio tumefatto, quasi staccato dal corpo, diventa il correlativo oggettivo di un malessere profondo, che Matteo Angius ci restituisce in un modo delicato, leggero, quasi funambolico, dialogando con un musicista presente in scena (Emiliano Duncan Barbieri) e soprattutto con un altro se stesso (Angius precedentemente filmato in un altro contesto e proiettato ora sullo sfondo) col quale interagisce, facendo teatro della propria follia. Prima di entrare in scena, aveva collezionato oggetti dal pubblico: un guanto rosso, un mazzo di chiavi e una borsetta diventano di volta i protagonisti della storia, personaggi catturati dal video accanto al pupazzetto di cui il ragazzo si serve per dare un altro volto ancora alla propria reificazione.
“An Oak Tree” spinge il discorso dell’abuso fino alle estreme conseguenze: un ipnotizzatore (interpretato a turno da Matteo Angius, Pieraldo Girotto e Gabriele Benedetti) riceve nel proprio studio televisivo l’uomo a cui ha ucciso tre mesi prima la figlia in un incidente stradale. Ogni sera, il personaggio del padre viene vissuto da un attore o un’attrice sempre diversi, del tutto ignari del copione che vanno ad agire. La tensione scenica è altissima, non solo perché l’ambivalenza dello statuto “vero/falso” scorre come un nastro magnetico per tutta la durata dello spettacolo, ma perché sono presenti due campi di forza micidiali i cui movimenti disegnano una manipolazione sempre reciproca, una lotta fino all’ultimo sangue, o all’ultima risata.
L’antipsichiatria di David Laing (“L’io e gli altri”, “L’Io diviso”) e la teoria del doppio vincolo di Gregory Bateson, materiale straordinario per lo studio della psicopatologia dei processi relazionali, sembrano essere le fonti, forse non del tutto consapevoli, di questa indagine drammaturgica sull’inflazione del reale e dei suoi molteplici dispostivi scenici, che ha trovato nell’intelligenza creativa di Fabrizio Arcuri la sua sponda migliore, la sua disanima più appassionata ed elastica.
Pubblicato su "Liberazione" del 15 marzo 2008

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