martedì 10 giugno 2008

Quando un abito da sera evoca l'orrore


Può un abito diventare performance teatrale esso stesso? Può, con l’aggiunta o la sottrazione o la metamorfosi di qualche sua parte, arrivare a nominare qualcosa di molto intimo, il punto in cui il terrore fa spettacolo di sé nel tempo angosciante dell’attesa? Ad osservare il costume di scena - scena minimale, fioca, irriducibile se non a se stessa - “abitato” da Chiara Lagani in “K.313”, il nuovo spettacolo di Fanny e Alexander, si direbbe di sì: un vestito da sera disegnato dalla stilista d’avanguardia Monica Bolzoni diventa, con i suoi buchi e i suoi lembi componibili, divisa da terrorista. Come “accessorio” una borsetta luccicante carica di esplosivo.
Dietro c’è uno dei più grandi misteri di questo inizio millennio: il sequestro di 850 spettatori del Teatro Dubrovka a Mosca da parte di 40 militanti armati ceceni che il 23 ottobre del 2002 interruppero la messa in scena di un musical ambientato ai tempi di Stalin (come raccontarono i sopravvissuti, ci furono momenti in cui i terroristi con le armi puntate sul pubblico furono scambiati per attori): dopo quattro giorni di assedio, le forze speciali russe Osnaz pomparono un misterioso agente chimico all’interno del sistema di ventilazione. In un modo che ancora oggi risulta incomprensibile, nella sua drammaturgia onirica in cui il potere vero marcava i confini di un altrove, morirono in quei giorni freddi d’ottobre non solo i ceceni ma 129 ostaggi.
Se rivediamo oggi le immagini di quell’assedio, entriamo in uno stato di ipnosi: l’ambientazione teatrale, gli spettatori accasciati sulle sedie, sempre più apatici, alcuni già disposti a morire, le aspiranti kamikaze che si siedono vicino a loro e parlano, parlano di arte, della condizione della donna nell’Islam, parlano e aspettano. Fino alla morte nel sonno, con i liberatori che diventano gli assassini. E’ forse proprio per la sua metafisica teatrale, per la scrittura su corpo della follia umana al lavoro, che Fanny e Alexander hanno pensato di tenere l’assedio del teatro di Mosca come immagine subliminale di un lavoro delicatissimo, che porta la musica e la letteratura nel ventre. Con le note di Mozart, “K.313” spara sul pubblico (sì, spara), un’opera intima e controversa. Letteralmente, sarebbe un recital. Le parole sono di Tommaso Landolfi, voce irriducibile, straniante, della nostra più alta letteratura. L’opera in questione è “Breve canzoniere”. Un frammento di dialogo che è umanamente impossibile spostare da dove è, tanto è millimetrico il movimento che va dall’uomo alla donna e all’uomo ritorna, in un match alchemico, spinoso, per sua natura refrattario ad ogni parafrasi. Con una partitura/dettatura di voci sottili, Marco Cavalcoli e Chiara Lagani (diretti da Luigi De Angelis) hanno saputo entrare in quella stanza privata come se tutta la vita non avessero frequentato altro. Di per sé, trovare la sonorità giusta per la condizione angosciata di questo breve canzoniere è già un piccolo miracolo. Ma Fanny & Alexander hanno fatto molto di più. Hanno cercato il punto di fusione tra letteratura e crimine, attraverso il teatro, con l’aiuto di Monica Bolzoni, fashion designer indipendente, voce fuori dal coro, che nel passato ha firmato con i suoi segni di terra le performance di Vanessa Breecroft.
L’uomo e la donna che si preparano a bucarsi l’anima confrontandosi su alcuni scritti incompiuti, si vestono sotto gli occhi dello spettatore con abiti eleganti, come se dovessero andare a teatro. L’uomo si sente un fallito, e i commenti della ragazza sui suoi frammenti non fanno che mortificare ancora di più il suo ego. E’ un assedio reciproco (quanto è feroce dirsi la verità), che lo spettatore può seguire fissando i due attori sul palcoscenico oppure le loro immagini catturate e sporcate da una telecamera a circuito chiuso.
Con il passamontagna e l’esplosivo incollato alla pancia, Chiara e Marco sono contemporaneamente l’uomo e la donna di Landolfi inerpicati sulla dolorosa diagnosi della condizione umana, una coppia di spettatori e una coppia di terroristi che, non si sa come, non si sa perché, dilata all’infinito il momento del massacro. Ancora in vita, questi due personaggi tessono il lavoro della morte in una trama poetica che ha dell’incredibile, tanto è esatta la gamma delle emozioni convocate sulla scena teatrale.
Nell’immagine grigia dei due incappucciati che registrano le loro stesse voci, come a cercare di fissare qualcosa che di per sé sfugge all’umana comprensione c’è un enigma. Per lasciarlo parlare, si è scelto di togliere ogni colore, ogni spiegazione e ogni inflessione che potesse distrarre dalla paura stessa. E’ in quel preciso punto di luce “neutra” che si sono incontrati teatro e moda: “Il nostro è un neutro preciso, è un contenuto, è un momento, un’icona definita della storia del costume - dice Monica Bolzoni parlando con Chiara Lagani dopo una replica dello spettacolo – Quest’immagine che abbiamo creato può diventare un’icona della paura e durare a lungo ma qui finisce, non è ripetibile. E’ un sentire mio che si collega ad un sentire vostro, a Landolfi, è un filo rosso che inspiegabilmente ci unisce. Io rappresento attraverso il vestito qualcosa che appartiene a tutti noi, interpreto uno stato d’animo”.
“K.313” riprenderà la tournèe a ottobre da Milano (Teatro Out Off). Ma sono tanti i segni del teatro di Fanny e Alexander che potremo intercettare quest’estate: “Kansas” (5-7 giugno al festival delle Colline Torinesi e il 12 e 13 luglio a Santarcangelo), “Emerald City” (11-15 luglio a Santarcangelo) ed “East” ( 26-28 luglio al festival Drodesera).
Pubblicato su "Liberazione/Queer"

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