lunedì 9 giugno 2008

"Che bello essere ansiosi": ritratto di Antonio Rezza


MILANO. Via dei Mercanti, una sera di maggio. E’ sabato sera e piove a dirotto. Come sempre, nei week end milanesi, la città si spopola: la gente preferisce farsi suicidare dal traffico delle autostrade piuttosto che stare in città. Meno male. Nella sua solitudine, Milano è quasi bella. Però stasera piove. E allora i sopravvissuti all’esodo maniaco se ne stanno chiusi a casa a doppia mandata. Per strada, ci sono i soliti dropouts, e i turisti, quelli a cui piace camminare per ore, quelli con lo sguardo incantato, quelli che cercano. Sotto i portici, sta per iniziare uno spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Tutto il giorno si sono avvicendati dibattiti, premiazioni: la Fondazione (Onlus) Gaetano Bertini Malgarini con altri partner ha fatto il punto sui trent’anni della legge Basaglia, con una manifestazione dal titolo Fuori, dove?. Il dettaglio di una diagnosi su carta medica, Senza cura, occupa un’intera fotografia, che si è aggiudicata il secondo posto in una competizione popolare. Peccato, valeva il primo. Senza cura è spietato e feroce. Come è spietato e feroce l’evento teatrale a cui il pubblico assiste forse per la prima volta. Preceduto da un frammento di Troppolitani, una delle surreali interviste che Antonio Rezza e Flavia Mastrella fecero per Rai Tre, Io, spettacolo del ’98, arriva come un fulmine in questa sera scombinata e dolce dove un bel numero di spettatori problematici si mischia a gente apparentemente più controllata. Quello che la maggior parte di loro non sanno è che Rezza è “il più grande artista morente” (è così che si faceva chiamare fino a poco tempo fa) e che il suo teatro non è teatro di rappresentazione ma agit-prop, musica, spirale performata, una specie di incrocio tra dadaismo e pensiero magico.
Il pubblico cresce a vista d’occhio e si stringe sotto i portici, mentre la pioggia che viene giù sempre più violenta incornicia di blu la caleidoscopica avventura dell’Io messa in azione da Rezza. Abitando i vestiti-case di Flavia Mastrella, giocattoli forati di pura stoffa colorata, lo straordinario performer riesce a fare uscire di senno chi lo guarda, convocandolo ad una scena tattile, coinvolgente, dove i luoghi comuni sfilano uno ad uno in barelle simboliche: per esempio, non è vero che ai bambini si vuole bene, è vero piuttosto il contrario, e cioè che i bambini si preferirebbe mangiarli per toglierseli di mezzo.
Si ride molto e il corpo di tutti, non solo quello magro, scattante, impossibile, di Rezza, non riesce più a trovare una posizione: si sbanda, ci si difende, si chiede cosa mai accadrà subito dopo. Un’ora e mezza di sfinimento. Rezza viene incoronato re per una notte.
Dopo pochi minuti il performer si toglie la calzamaglia nera e indossa una camicia gialla e un gilet su un pantalone variopinto. I suoi movimenti sono quelli di uno che ha appena preso la scossa, il ritmo dell’affabulazione è concitato, ma la voce no, è diversa, è una voce dolce, la voce di un ragazzo romano un po’ timido che parla a raffica di Cristo, di Artaud, delle origini che vanno decapitate, della verità e dell’odio. Della follia, anche, e del suo confine con la cosiddetta normalità.
“Credo che la pazzia sia una metafora della nostra situazione culturale. In letteratura, nel teatro e nel cinema, c’è un sacco di gente che non ha fatto niente di importante per essere scambiata per matta, ma vorrebbe tanto perché “fa tendenza”. La pazzia vera invece è sudore, è fatica, e non un atteggiamento mentale”.
Di sé e di Flavia Mastrella, l’artista visiva con cui ha iniziato vent’anni fa un cammino di arte “depensata”, tra teatro cinema cortometraggi e programmi tv, parla come di “due matti scientifici”.
Due creatori che non prendono ispirazione dalla realtà ma che riescono a trafiggere le retoriche animando cose, tessuti, corpi.
Viene in mente Carmelo Bene quando toccava le stoffe del Macbeth come fossero vive e a seconda della drammaturgia dei colori faceva prendere una certa piega alla scena. In qualche modo, il quarantaduenne performer romano è il vero erede di Bene. Non perché faccia lo stesso tipo di teatro (Rezza fa ridere, Bene faceva sorridere, con gli archi della sua voce-mondo), ma perché, come l’autore di Nostra Signora dei Turchi è un creatore di forme pure oltre che un anarchico allergico alla politica (“ogni politica è fascista e repellente: non è mai un’attività dell’ingegno”), un funambolo dell’azione che ogni volta sposta il pensiero oltre i limiti del pensabile.
“Intelligentemente, Bene era contro il sistema. Comunque, prima di Bene c’è stato Artaud, che ragionava molto più col corpo. E ancora prima di Artaud, Nietzsche ha parlato della comprensione come meccanismo miserabile per decadere di fronte allo spettatore. Canetti pure scriveva delle cose del genere. Così mi dicono, perché io non li ho letti veramente. Sto facendo un esperimento su me stesso: un processo di prosciugamento progressivo che mi deve portare a verificare come può una persona che non si alimenta fare delle cose belle.”.
Da anni, Rezza combatte una battaglia personale contro il teatro di narrazione, che crede essere il frutto di una truffa ai danni dello spettatore: “Non mi piace chi racconta, chi gioca a rimpiattino col pubblico sfruttando la comprensione e la conoscenza di chi guarda lo spettacolo. Poi c’è una seconda ragione di ordine estetico: non credo che si possa stare seduti di fronte a un pubblico di persone sedute. Credo solo in un teatro di sfiancamento, di spossamento, di profonda erosione corporea. Accetterei l’esistenza del teatro di narrazione solo a patto che il biglietto costasse la metà. Questi spettacoli devono essere venduti a metà prezzo perché sono spettacoli usati, di seconda mano”.
Non cerca le storie nemmeno in letteratura. Eppure scrive romanzi. Antinarrativi, naturalmente. “L’esigenza è posturale, non mentale. Se sto seduto scrivo. Se sto in piedi faccio teatro. Il teatro non lo scrivo mai”.
Il suo ultimo romanzo si intitola Credo in un solo oblio (Bompiani) e ci porta a discorrere di una questione nevralgica che interessava anche molto Carmelo: è meglio dimenticare piuttosto che ricordare? “Dipende da cosa. Non posso dimenticare ad esempio le persone che vogliono intralciare il libero corso delle idee. Non posso dimenticare che vorrei vederle morte”.
C’è un altro tema che ossessiona l’artista romano, ed è il sonno, che ha dato il titolo ad un suo romanzo e che scorre come leitmotive in tutta la sua produzione, con sovrabbondanza di personaggi inerti, narcolettici, incapaci di alzarsi dalletto e vivere una vita degna di essere vissuta: “Il sonno è troppo democratico. Non dovrebbe essere di tutti ma solo di chi ne ha veramente necessità al fine di ricaricarsi per il supplizio del giorno dopo”.
A proposito di supplizi, non tutti si sottopongono volentieri alle aggressioni giocose di Rezza: Fotofinish finiva con un cumulo di spettatori scelti a caso e depositati sul palco, sui quali lui camminava toccandone i sederi. C’è gente che ha paura ad andarlo a vedere. Paura fisica: “Non è un teatro di percosse, il mio, ma un teatro di disequilibrio, di spiazzamento. L’unica cosa di cui il pubblico dovrebbe aver paura è del proprio stesso stupore”.
E lui, Antonio, di cosa ha paura? “Del gas. Ogni volta che esco da casa lo chiudo una decina di volte. E’ una cosa che mi viene da mia madre”. E della guerra non ha paura? “No, perché non la conosco. I miei genitori che l’hanno vissuta possono temerla. Io semmai ho paura dell’informazione sulla guerra”.
Comunque, per tranquillizzare quel pubblico che lo ama ma solo a debita distanza, possiamo dire che Rezza, volendo, è anche una persona normale che fa cose normali tipo andare a mangiare la pizza con gli amici: “Anche perché a Nettuno, dove vivo, puoi fare solo quello”.
Per sua stessa ammissione, Antonio è un individuo ansioso anche fuori scena: “L’ansia è un fremito che impedisce di fare parecchie cazzate”. Eppure, non ti mette mai veramente a disagio. Al contrario, sembra sinceramente incuriosito dagli altri e a tratti quasi tollerante.
Impossibile chiedere i contenuti del prossimo spettacolo, perché gli spettacoli non indicano mai un “cosa” ma un “come”. “Rispetto a Bahamut, l’ultimo lavoro, sarà ancora più vicino alla musica, si perderà completamente il senso”. Sul film in preparazione invece si lascia scappare una nota in più: “Flavia ed io abbiamo appena finito di girare Samp: è ispirato alla vita di San Paolo di Galatina. La storia di un killer che uccide le tradizioni. Noi pensiamo che ogni luogo di provenienza dovrebbe essere soppresso. Il film dobbiamo ancora montarlo, quanto alla possibilità di vederlo distribuito sarà per noi un terno al lotto, come al solito”.
La buona notizia è che sta per uscire per la Kiwido “Ottimismo Democratico”, una raccolta in bianco e nero del loro cinema degli anni Novanta. Nell’attesa di sentirci beatamente scomodi a casa nostra, potremo vedere intanto trenta minuti del film su Cristo il 10 luglio alla “Milanesiana”. Rezza e John Milius (quello di Conan il barbaro) ospiti d’onore. “Stavolta non collaboro con Flavia perché lei si è mostrata ostile: dice che un film su Cristo è pubblicità occulta per la Chiesa. Forse ha ragione. Il racconto è filologico finché non intervengo io. E’ il performer che fa percorrere al film un’altra strada, ribellandosi all’autore. Come tutti, anche il mio Io autoriale è reazionario. Il cervello è gerarca, imprigiona i movimenti del corpo”.
Per tutto il corso dell’intervista, Rezza ha continuato a toccarsi nervosamente i capelli, quei ricci mai tagliati che incorniciano un volto scavato, uno sguardo capace di anticipare ciò che gli stai dicendo, con improvvisi abbagli di stupore e arrendevolezza. In effetti nessuno in Italia ha quel phisique du role per fare Gesù Cristo. Un personaggio che Rezza, una laurea mai ritirata in Storia delle Religioni - titolo della tesi: “Il significato clientelare della preghiera” - non intende trattare meglio degli altri solo perché è figlio della Madonna: “Il mio Cristo non dice una parola, strilla soltanto”.


Pubbicato su "Liberazione" il 28 maggio 2008

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