martedì 3 giugno 2008

Storia di Maria, bambina cane abusata dagli uomini


Una marionetta disarticolata, il corpo leggero, sottile, che si spezza e si ricuce ad ogni movimento: lento. I capelli lunghi neri che le coprono il viso, gli occhi chiusi, condannati a rivedere sempre la stessa scena: mani che diventano artigli, il respiro animale del maschio che fruga una vita acerba di donna per mangiarla. A piedi scalzi, con un vestito nero, la ragazza poggia le mani all’indietro, su un cubo bianco, unico elemento di scena. Questo il fermo immagine: una vita spolpata. Poi c’è la voce, un prima di tutte le voci, suono arcaico, plurale, di un femminino che ha radici nella terra e per questo chiama a sé il cielo, o quel che ne resta. Quando Ilaria Drago comincia a “dire”, a “suonare” (e non a raccontare”) la storia di “Mariacane” , il pubblico del Teatro Palladium di Roma si immobilizza per sottoporsi ad una trasfusione sanguigna. La voce orchestra di Ilaria entra nelle ossa e scolpisce nella carne la storia di una bambina cane. Manca l’aria, come a Maria. Si sente solo il flusso del sangue. Per lo spettatore non c’è via d’uscita, come non c’è stata per la ragazzina stuprata da tre uomini. Ogni parola vive cucita sulla pelle dell'attrice che è un medium potente tra il mondo di sotto e quello di sopra. Per questo tiene gli occhi chiusi. Occhi bellissimi, trasparenti, che si aprono solo quando Maria non è più cane ma bambina che sogna e si inventa le ali, come quell’angelo a cui chiede: “angelo, sei anche tu uno sciancato, sei anche tu un cieco, sei anche tu una carcassa?”.
Grazie ad uno strumento chiamato looper, la voce di Ilaria Drago diventa una base su cui tessere le parole e raggiungere archi quasi lirici, in una partitura che nel suo minimalismo si fa teatro musicale, convocando nella bella colonna sonora di Marco Guidi sonorità africane e accenni liederistici.
“Mariacane”, testo per cui Ilaria Drago ha vinto il Premio Elsa Morante per la Letteratura 2006 (sezione inediti), ha rappresentato un passaggio d’arte rigoroso e sensibile all’interno del Festival “Teatri di Vetro”: nonostante qualche inserto più superfluo (il richiamo alle merci, dentro un discorso che improvvisamente si fa giudicante), ogni dettaglio di questa vicenda nera ha potuto trovare il suo punto di fuga luminoso, la sua sintesi estetica di doloroso riscatto.
Al tema della violenza sulle donne Ilaria Drago ha dedicato anche il suo commovente romanzo d’esordio, “Dalla pelle al cielo” (Avagliano Editore) che verrà presentato il 27 giugno alla Casa Internazionale delle Donne. E’ il diario di una bambina di dodici anni che viene abusata dal padre e che troverà nell’alleanza con la madre, massacrata di botte dal marito, la sua fugace possibilità d’amore. Il tragico finale viene anticipato nelle prime pagine del libro, ed è con un respiro affannoso che il lettore attraversa il mondo vulnerabile della protagonista la cui innocenza verrà prematuramente violata dalla violenza di chi a sua volta ha subìto altra violenza.
La bellezza del racconto sta nel tempo che la scrittrice si concede per descrivere il miscuglio opaco e infernale di sentimenti che attraversano la mente di una bambina abusata, incapace di distinguere i confini dell’io e del tu, soffocata da un disgusto che si manifesta come senso di colpa e vergogna, segnata da una pulsione di morte che nasce dall’esperienza brutale del sesso. “Mio padre mi fa come morta in certe notti”.
Come in una fiaba classica, ci sono gli oppositori (i professori, i preti) e gli aiutanti (alcuni compagni di scuola ed Angela, una specie di sciamana che protegge le donne), ma il più delle volte i contorni delle cose e dei personaggi sono sfuggenti, come nella vita, dove la verità non affiora mai perché è più normale muoversi sotto il dominio della paura.
Affidato ad una scrittura che slitta dal basso all’alto (la ragazzina protagonista del libro vuole diventare poeta), “Dalla pelle al cielo” non ha una sola frase che sia falsa. Forse perché Ilaria Drago, vent’anni di teatro di poesia alle spalle, conosce il significato profondo delle parole e nell’uso che ne fa passa il dolore di tutte le donne, di tutte le figlie e le madri: “Madre! Madre mia, ceppo di legno riarso/incenerita a forza di insulti e bestemmie/grembo covo di paglia e mani di latte….Fammi come l’acqua/ quando dai fiumi spinge a mare la memoria/di quelli che l’hanno bevuta, di chi non l’ha avuta/ delle bestie che l’hanno attraversata/ a guado lento…”.
Pubblicato su "Liberazione" del 3 giugno 2008

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