Il pacifismo sembra passato di moda. E la parola ”pace” si incolla ormai solo
all’attaccapanni dei Nobel: rispettabilissimi ma svuotabili facilmente di
senso, quando a quelle onorificenze non si accompagnano azioni per la pace.
(Che poi ti chiedi: a quanta gente hanno dato il Nobel per la Pace? Ma saranno
tutti veramente pacifisti questi signori?). La parola ”guerra”, al contrario,
gode di ottima salute. Non solo “la” guerra, ma i suoni che la nominano: war,
guerre, krieg… Le immagini dei corpi massacrati in Yemen, Nigeria, Kenya, Iraq,
Siria, Messico, Ucraina, i morti nella redazione di ”Charlie Hebdo” a
Parigi, per dire solo alcuni delle epicentri delle violenze degli ultimi tempi.
La fotografia degli studenti presi dall’alto, cadaveri accatastati e
brutalmente lasciati lì,ad essiccare sotto un sole che ha perso la luce, ha
fatto il giro dei social network. Qualcuno si è sottratto, come la scrittrice
Igiaba Scego, che si è rifiutata di diffonderla e ha pubblicato invece, al suo
posto, "Il trionfo della morte" di Bruegel. Le
parole di distruzione sovrastano quelle di vita in una misura inaccettabile. E’
una storia lunga, che tutti i più grandi scrittori, da Dante a Dostoevskij a
Roth, ci hanno raccontato: il male trova a volte forme più seducenti con
cui plasmare l’immaginario e farsi strada nella vita. Eppure, lo diceva a chiare
lettere Hannah Arendt, «solo il bene è radicale», perché il male può al massimo
essere «estremo». Queste parole riaffiorano alla memoria mentre ci
immergiamo nelle atmosfere della grande mostra “Senzatomica” organizzata
dall’Istituto Buddista Italiano (Soka Gakkai): dopo esser stata ospitata in
varie città d’Italia, adesso è a Roma: al Macro Pelanda fino al 26 aprile.
Un
cammino che ciascun visitatore può fare a suo modo. Assecondando un ordine
logico del discorso, ma anche uno emotivo, sensoriale. Sul piano sonoro, ci
sono diverse linee che si inseguono: la simulazione del lancio della bomba
atomica a Hiroshima, un rumore fragoroso, assurdo, che fa ancora tremare i
polsi. Ma ci sono anche le tante voci delle guide che raccontano le tappe della
costruzione della bomba atomica, i tentativi di accordi di pace e i rischi
attuali, in un modo differente: «Il disarmo parte da noi». (Sono i membri
dell’Istituto buddista che, muovendo dalla sacralità della vita, pone la
questione del disarmo tra i suoi principi fondatori).
Se ci
fermiamo, nel padiglione centrale, veniamo calamitati dalle testimonianze (in
giapponese, con sottotitoli) delle hibakusha, ”coloro che sono state colpite
dal bombardamento”. Alcune sono molto anziane. Altre sono figlie e nipoti di
quelle donne che subirono gli effetti devastanti di Hiroshima e Nagasaki.
«Mio figlio giaceva privo di sensi. Tutto quel sangue. sembrava morto».
C’è l’immagine di una strada cosparsa di vetri rotti che s conficcano nelle
scarpe. Morti che sono ancora vivi ma che saranno costretti a sopravvivere con
visi sfigurati, leucemie inguaribili. «Mi sanguinavano le gengive. I capelli mi
cadevano a fiocchi». E ancora: «Ogni giorno si cremava qualche nuovo
corpo. Ma bisognava sopravvivere».
Già,
come sopravvivere? C’è una nota che accomuna queste testimonianze, ed è la
volontà di superare la vista della morte e di lottare per la conoscenza. Sono
quasi tutte donne che hanno visto morire padri madri fratelli figli e che
nonostante questo sono andate a parlare alle Nazioni Unite, che hanno fatto
della propria stessa vita un’arma potente. Eccole, le parole «radicali» del
bene.
Le
parole «estreme» del male, invece, si edificano sulla menzogna ma sono dure a
morire. «Si è pensato che l’impiego di queste armi fosse un ”male necessario”
per mettere subito fine alla guerra senza sacrificare ancora migliaia di
soldati americani. Le cose, invece, andarono in modo diverso - scrive B.Liddel
Hart ne ”La seconda guerra mondiale”, testo riportato in mostra - Il 20 giugno
del 1945 l’imperatore del Giappone convocò un consiglio di ministri a cui
chiese di porre fine alla guerra il più presto possibile. Si decise allora di
inviare il principe Konoye a Mosca con lo scopo di assicurarsi la pace ”a
qualsiasi costo”. Ma gli americani intercettarono quanto stava succedendo e
realizzarono che per loro la situazione non era affatto conveniente...Il
problema di Truman non era affatto mettere fine alla guerra il più presto
possibile, ma di evitare che intervenisse per prima l’Urss e avanzasse rivendicazioni
in Medio Oriente...Lo scopo non era di risparmiare la vita a tanti soldati
americani, ma il desiderio di dominio e di potere».
”Senzatomica”
registra i passi fondamentali della storia della bomba atomica, gli effetti di
Hiroshima e Nagasaki, insistendo sulla ”sicurezza umana”. Con un focus
sull’Italia che «come paese membro della Nato, ospita sul proprio
territorio bombe nucleari statunitensi B61, 900 volte più potenti di quelle di
Hiroshima, al cui uso vengono addestrati anche i piloti italiani».
Ma
quello che è più importante è lo spirito che anima questa grande mostra sul
disarmo. Uno spazio significativo viene riservato a figure come Nelson Mandela,
«che ebbe il coraggio di dialogare profondamente con il proprio avversario e di
arrivare a inaspettate riconciliazioni» e Daisaku Ikeda, attuale presidente
della Soka Gakkai, un uomo che sui dialoghi di pace ha costruito la sua
esistenza e la sua missione nel mondo: dal 1983 invia ogni anno all’Onu una Proposta di Pace che contiene possibili soluzioni ai problemi globali del
pianeta.
Di
campagne per il Disarmo ne sono state fatte, e la lotta non si ferma certo qui.
Ma quello che “Senzatomica” ci fa comprendere è che il mostro non sempre fuori
di noi. Che complicità, interessi, avidità, ipocrisia, guerra per il potere,
sono strategie umane di sopravvivenza. E che queste strategie trovano modi
estremi e sempre più sottilmente crudeli per affermarsi. Per questo il
disarmo è, prima di tutto, interiore. Con sé porta parole radicali e inequivocabili.
Le parole ”concrete” del bene. «Il Summit G8 del 2016 avrà luogo in Giappone:
in parallelo potrebbe svolgersi un summit allargato dedicato alla realizzazione
di un mondo senza armi nucleari, che fornirebbe la sede opportuna per
impegnarsi pubblicamente per una sottoscrizione di tale accordo in tempi brevi
- scrive Ikeda - La mia seconda proposta concreta è di utilizzare il processo
che si sta sviluppando intorno alle Dichiarazioni congiunte sull’impatto
umanitario dell’uso di armi nucleari per coinvolgere ampiamente l’opinione
pubblica internazionale e attivare negoziazioni. È importante ricordare
che un accordo sul non uso non è altro che una testa di ponte verso il nostro
ultimo obiettivo - la proibizione e l’abolizione delle armi nucleari - che
potrà essere raggiunto solo grazie a un’accelerazione dell’impegno in tal
senso, spinta dalle voci unite della società civile globale».
(Pubblicato sul "Garantista")
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