Peter Brook ha compiuto 90 anni. E mentre scriviamo questa semplice frase, ci accorgiamo che non
si accompagna al pensiero automatico: andiamo a vederlo, a sentirlo, prima che
sia troppo tardi. Non perché questo non possa essere un desiderio legittimo, ma
perché da tempo il regista inglese – naturalizzato francese - ci ha abituato a
pensare che la vecchiaia è una pura convenzione, che fino all’ultimo momento
della vita si può aprire una finestra sul futuro. E che persino la morte, in
fondo, fa parte del ciclo naturale delle cose. Della vita in sé, Brook ha
tenuto sempre grandissimo conto. Al punto da considerare il teatro stesso come
una affermazione della sacralità degli esseri viventi: «La prima qualità di uno
spettacolo è la sua vitalità; la seconda, nella sua immediata comprensibilità».
Pacifista, fiero oppositore di ogni forma di guerra e di sopraffazione, Peter
Brook è nato il 21 marzo del 1925 a Londra da un padre russo costretto ad
emigrare dal suo paese come dissidente politico. Cominciò a lavorare subito in
teatro, diventando a soli 20 anni il direttore del Covent Garden. Ed è del 1955
lo spettacolo che ha richiamato l’attenzione internazionale, quel “Tito
Andronico” in cui per la prima volta il palcoscenico si rivelava come “spazio
vuoto”, un luogo in cui far incontrare su una linea immaginaria, una corda
tesa, lo sguardo di attore e spettatore: poiché senza colui che assiste nulla
può accadere.
«Posso prendere un
qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo palcoscenico vuoto. Un uomo attraversa
questo spazio vuoto mentre qualcun altro lo guarda, e questo è tutto ciò di cui
ho bisogno perché si inizi un atto teatrale» scriverà qualche anno più tardi,
nel 1968, in “The empty space”, un libro che tuttora rimane una bussola
non solo per chi si avvicina professionalmente al teatro ma anche per chi
considera il dispositivo scenico come una forma ancestrale, e immediata di
conoscenza.
Dal 1970 Peter Brook
vive a Parigi. Nel 1974 ha riaperto quel bellissimo teatro che è Les
Bouffes du Nord, motore creativo della scena europea, che era rimasto chiuso
dal 1946, e di cui sarebbe stato il direttore artistico fino al 2010. « Tutto
intorno non c’era niente…Il teatro era là, bruciacchiato, macchiato dalla
pioggia, tappezzato di buchi, e tuttavia nobile, umano, rosso incandescente,
bellissimo: Les Bouffes du Nord» (questo il ricordo del primo sguardo).
Come opera
d’inaugurazione, scelse “Timone d’Atene”, nell’adattamento di Jean Claude
Carrière. Ancora una volta Shakespeare. Non è stato ovviamente l’unico autore
frequentato dal maestro inglese (il “Marat/Sade” di Peter Weiss nel
1964, “The conference of the birds” di
Farid ad-din Attar del 1979, il “Mahabharata”, vera esperienza epica datata
1985, segnano, solo per fare alcuni esempi, tre tappe fondamentali del suo
teatro) eppure la scrittura shakespeariana è stata la vera compagna di vita di
Brook. In un altro importante libro, “The shifting point” (traduzione italiana,
“Il punto in movimento”), che raccoglie scritti dal 1946 al 1947, cominciava
così uno dei capitoli: «Shakespeare non è una noia»: alludeva a decenni di
messe in scena sepolcrali. E molti anni più tardi avrebbe scritto un altro
libro intitolato “La qualità del perdono, riflessioni su Shakespeare”.
«Le opere di
Shekespeare hanno questa caratteristica: non vi è interpretazione, ma la cosa
in sé» dichiara.
Tutta l’opera di
Brook segue questa legge misteriosa. Sia che faccia Shakespeare sia che si
avvicini ad altro, all’Africa - altro grande territorio frequentato tutta la
vita da Brook, sia nella scelta degli attori che dei testi - o all’Oriente.
Non è mai interpretazione. E’ “la cosa in sé”. E’ per questo che, anche
in Italia, i teatri che hanno ospitato i suoi spettacoli hanno accolto
spettatori di tutte le età, anche giovanissimi, che magari non sanno niente di
Brook ma sono attratti dalla verità e dalla semplicità delle sue opere, che
nascono da una concezione non autoritaria della regia intesa come pura opera di
“distillazione” (un’idea che condivide con Ermanno Olmi, suo grande amico).
Nel 2011, il regista
inglese aveva annunciato l’addio alle scene. Ci precipitammo al Teatro Argentina
di Roma, dove veniva rappresentata una sua rilettura del “Flauto magico”,
opera di «magica fragilità» - come l’aveva definita il critico e storico Georges
Banu-, in cui l’unione di Tamino e Pamina veniva letta attraverso lo sguardo di
un vecchio/bambino che costruisce sulla sabbia la sua idea di città fondata
sull’amore. Un movimento leggero d’ala, un umanissimo incantesimo. Che in
realtà non era un addio. In questi ultimi anni, Peter Brook si è dedicato al
mistero del cervello umano, realizzando nel 2014 “The valley of astonishment”,
un’opera sulle tante forme di sinestesia (più di 150) che parte
dall’osservazione di una creatura la cui malattia non indica un deficit, ma una
qualità umana più raffinata. Il buffo personaggio di Sammy, interpretato dalla
bravissima Kathryn Hunter (la stessa attrice che recitava “Fragments”, spettacolo
che è arrivato con successo anche in Italia, mostrandoci un aspetto ironico
della scrittura beckettiana, che in genere viene invece affrontata in modo nero
e dogmatico), ha una memoria eccezionale e di se stessa dice: «Sono un
fenomeno». Non è la prima volta che Brook si interessa alla mente di
soggetti neurologicamente sofferenti, lo fece già con “The Man Who” (spettacolo
del 1993) ispirato all’opera di Oliver Sacks. «Il teatro esiste per stupirci e
per combinare due opposti elementi, il familiare e lo straordinario – ha
spiegato il grande regista, che non vuole essere chiamato maestro – E’ per
questo che mi sono avventurato nei segreti del cervello umano. L’ho fatto tanti
anni fa con “The man who”. E stavolta, percorrendo le montagne e le valli del
cervello umano, siamo arrivati nella sesta valle, quella dello stupore. I
nostri piedi sono incollati al terreno, ma passo dopo passo penetriamo
sempre di più dentro lo sconosciuto».
Passo dopo passo.
Gesto dopo gesto. Stupore dopo stupore. Oggi, dall’alba dei suoi 90 anni, Brook
guarda oltre di sé e tende qualche nuova corda. Per aiutarci a ricordarci come
è fatto un uomo e quale meraviglioso mistero egli abiti. «La corda tesa è
l’immagine che meglio rappresenta la mia idea di teatro. Per mantenere
l’equilibrio, un funambolo deve tener conto di due cose: avere ben presente il
punto d’arrivo e al tempo stesso badare ai lati. Oscillare senza mai perdere la
meta. Altrimenti cade. Vale nel teatro come nella vita».
(pubblicato su "Il Garantista")
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