domenica 25 gennaio 2015

Stefano Massini: "Con la caduta dei fratelli Lehman, racconto il nostro distacco dalla realtà"



Nella casa in cui vive, non c’è linea telefonica. E fa freddo. Non sarà il freddo che c’è in Russia, ma non c’è un’altra parola per dirlo, quindi sì, fa freddo. Per un attimo si interrompe la conversazione. <Stavo inseguendo un raggio di sole. Quando arriva il raggio di sole, ecco io cerco di mettermi lì dove è lui>. E’ interessante sapere dove vivono e come vivono gli scrittori. In effetti, già i segni fotografici della sua pagina Facebook lasciavano intendere qualcosa di molto poco fragoroso. Protagonista di questa foto era quasi sempre Brownie, il cane Brownie, che gioca nel verde, o sulla neve. Stefano Massini vive nella campagna toscana, vicino a San Donnino, con la sua compagna Silvia e il cane Brownie. Eppure la sua parola è piena, generosa. Non è certo un tipo umbratile ma, come ci spiegherà, non gli piace perdere tempo con chiacchiere, piccolezze, intrighi, inviti a cena (con delitto: leggi capro espiatorio obbligatorio del discorso). Nonostante questa presentazione, non è uno scrittore di thriller, ma un drammaturgo e anche se in Italia se dici che fai il drammaturgo poi ti chiedono sì, va bene, ma che mestiere fai, in realtà è un  lavoro importante per la coscienza critica di un paese. Specialmente se, attraverso la forma drammatica, trovi il modo di parlare dell’Altro, di quello che non sei tu. Qualche anno fa, lo scrittore toscano si è messo in un’impresa titanica: il racconto del crollo dei Lehman Brothers, andando ad indagare nelle loro vite dall’11 settembre del 1844, quando i fratelli Lehman arrivarono dalla Germania in America sulla nave Burgundy e misero su in Alabama un negozio di stoffe, fino al crac del 2008 a New York, <la più grande bancarotta bancaria della storia>. Ha studiato un anno e mezzo testi di economia in inglese, ha inventato la sua affascinante architettura distesa su 329 pagine di micro-narrazioni piene di echi sotterranei, ha pubblicato il libro (Lehman Trilogy, Einaudi), che è stato già tradotto in varie lingue e richiesto da diversi teatri europei, e per un anno ha lavorato fianco a fianco con Luca Ronconi, perchè quei personaggi prendessero oggi vita scenica immersi nel bianco su cui scorrono, ogni tanto delle scritte. Cinque ore di spettacolo, un’opera sinfonica (wagneriana , dice Ronconi),  che non racconta soltanto il crollo di una delle più grandi imprese finanziarie d’America, ma la caduta degli dèi che hanno peccato di hybris: dal 29 gennaio lo spettacolo, per la regia di Luca Ronconi, è  al Piccolo di Milano (con Fabrizio Gifuni, Massimo Popolizio, Massimo De Francovich, nei ruoli principali).


Massini, lei perché scrive? E per chi?
Mi ha colpito molto una cosa che ha detto Ronconi: <Quando scrive, Massini scrive si mette nella testa dello spettatore>. E’ quello che cerco  sempre di fare. Quando vai dentro un ospedale, c’è l’ortopedico che ti cura il ginocchio e c’è il cardiologo che ti cura il cuore. L’ortopedico non contesterebbe mai al cardiologo di appartenere al mondo della medicina. Questa metafora la applico alla scrittura e al teatro. Non oserei mai dire che la mia drammaturgia è giusta e quella di un altro sbagliata. Quello che mi piace è provare a creare dei sistemi, che sono dei testi, attraverso i quali scrivere qualcosa che chi legge o chi vede non deve subire ma deve contribuire a creare. Richiedo una complicità intellettuale da parte del pubblico.

Perché si è dedicato alla drammaturgia e non alla letteratura?
Diciamo che ho sempre avuto una bruciante passione per le cause minoritarie. Il teatro contiene in sé una meravigliosa contraddizione, poiché è il rito laico più antico che esista e, ciononostante, è sempre  in pericolo. Questa sua vecchiaia non gli dà nessun salvacondotto ma di secolo in secolo sembra che sia sempre sull’orlo del baratro. Eppure resiste. Il teatro diventa in questo momento una forma d’arte necessaria. Perché ha una tendenza allo zoom monografico, a tutto ciò che a fatica a stare nei 140 caratteri di un tweet. E questa contraddizione lo rende simpaticissimo. Il secondo punto è che secondo me il Novecento ha avuto una tendenza molto marcata alla semplificazione. Tutto il trionfo della tecnologia digitale ha mirato a questo obiettivo: rendere la vita più agevole. E noi indubbiamente rispetto ai nostri genitori siamo facilitati: abbiamo il navigatore in macchina, non dobbiamo trovare una cabina telefonica per parlare. E dentro un sistema come questo trovo straordinario che ci sia un unico ambito espressivo del tutto non facilitante. per arrivare a teatro devi uscire, devi parcheggiare, devi esporti al freddo, devi lavorare con la testa, ti puoi ammalare.

In fondo, tutto il lavoro dell’immaginario non ha niente a che fare con la comodità dell’esistenza.
 Già.Questa caratteristica ontologica, genetica, questa richiesta di complicazione….crea in chi viene a teatro un tipo di disponibilità nei confronti dei suoi contenuti completamente diversa, rispetto alla disponibilità che si può avere nei confronti della televisione, del cinema…

Come sono apparsi i Lehman Brothers come personaggi e come hanno fatto a convincerla a scrivere su di loro?
Se io scendo per strada e sulla mia strada incontro un funerale, non ho nessuna forma di partecipazione emotiva rispetto a quello che sta avvenendo. Invece, se qualcuno mi si accosta e comincia a raccontarmi qualcosa sulla persona che è morta, ci sono alte possibilità perché quella cerimonia funebri cominci ad avere per me un valore diverso. Più la persona mi darà dettagli sulla vita del morto, e più io mi appassionerò a quella vicenda funebre. Ecco, questo è Lehman Trilogy.
Tutti sanno che ad un certo punto è fallita una banca chiamata Lehman Brothers ma nessuno sa che cos’ era quella banca. Il mio compito è quello di informare, affinché la cerimonia funebre acquisti un valore completamente diverso. Perché ho scelto Lehman? Perché c’è qualcosa di molto più importante della storia del fallimento di una banca. C’è la storia della fine di un sistema. E questo, da un lato, rende la storia esemplare, paradigmatica, e dall’altra la rende titanica.

La prima parte della trilogia insiste sulla materia. Poi è come se la materia, i corpi, svanissero. La morte della società è annunciata dalla sparizione delle cose, dei tessuti, del cotone, dei bottoni, e degli esseri umani a cui si nega persino un funerale.
 Nel passaggio tra Ottocento e Novecento noi abbiamo iniziato un percorso che, prima gradualmente, poi vorticosamente, ha avuto un motivo dominate, ovvero il distacco dalla realtà. Sempre di più i mestieri che avevano a che fare con il maneggiare, il toccare la materia, sono stati considerati dei mestieri degradanti. Lo stesso identico fenomeno che è successo in Lehman dal punto di vista economico.  Partiti da un tipo di concetto ottocentesco della banca che vedeva i soldi come strumento - acquistare e spostare merci che fossero cotone o caffè - si è arrivati al fatto che i soldi diventavano veicolo e fine al tempo stesso. Il meccanismo è diventato patologico e incontrollabile. Il vicepresidente della banca (si chiamava Lawrence Mc Donand), nel momento in cui la Lehman Brothers  fallì, rilasciò una intervista in cui disse che nessuno tra i consiglieri d’amministrazione della banca e nel consiglio di presidenza, poteva immaginare né sapere quanto e come la banca fosse indebitata.

In una parte del testo, lei usa l’artificio retorico dell’”I have a dream” di Martin Luther Kink. Quello che un Lehman arriverà a sognare non è l’uguaglianza tra le razze, quanto l’uguaglianza tra compratori. Si comincia a desiderare una democrazia totalitaria dove il denaro fa da collante e da livellatore (<perché tutti abbiamo un portafogli e tutti abbiamo un conto in banca>).  Per quanto osceno, c’è sempre un sogno all’opera.
Certo che c’è un sogno. Io ci metterei anche qualcos’altro. Ad un certo punto ad andare in crisi è anche il collegamento tra economia e democrazia. Nel senso che sia il meccanismo su cui si regge il capitalismo del risparmio – quindi su cui poggia l’architrave del sistema bancario di cui il capitalismo è ancella –  sia la democrazia rappresentativa, si basano sullo stesso tipo di principio di delega. Ora, il vero  gigantesco problema è che  durante il dopoguerra si è assistito non soltanto allo sfaldarsi delle ideologie politiche che hanno finito col mettere in crisi tutto il sistema della democrazia rappresentativa, ma si è finito con lo sfaldare anche il sistema di fiducia che c’era tra risparmiatore e banca. Io sapevo che tu banca avresti amministrato bene i miei soldi o almeno, se io fossi venuto a reclamarli, tu me li avresti resi. Ecco, l’aver messo in discussione questo meccanismo, è stato fatale.

Alla base della caduta di questi dèi, c’è anche un delirio d’immortalità. Si nega la fine della vita e si arriverà a negare anche la morte. Si cancella il semplice gesto del buttare la terra dietro le spalle: <i morti ai morti, i vivi ai vivi>.
Quando Ray Bradbury scrive “Fahrenheit 451”, siamo nella metà del secolo scorso, immagina un mondo in cui ci saranno  delle pasticche che ci vieteranno di essere tristi. Quasi 60 anni dopo il libro di Bradbury, siamo arrivati al paradosso che se il tuo bambino piccolo a scuola è minimamente timido o minimamente agitato, si chiama subito lo psichiatra. Voglio dire, c’è il terrore di tutto ciò che è sentimento, paura, gioia . E’ molto più comodo far finta di vivere in una gigantesca Gardaland chiamata esistenza…

C’è una struttura classica in tutta questa vicenda. I Lehman violano il limite, peccano di  hybris.
 E vengono puniti.

Ogni capitolo della Lehman Trilogy ha un titolo in yiddish. Sembra che lei conosca perfettamente la lingua e la cultura ebraica.
 E’ una lunga storia. Quando ero piccolo, la mia famiglia frequentava una famiglia di ebrei sefarditi della comunità di Firenze,  e io ho conosciuto il teatro dentro la comunità ebraica della mia città. L’ebraismo è qualcosa che conosco bene da vicino, non l’ho studiato per scrivere Lehman Trilogy. Infatti in molti miei testi c’è  il tema dell’ebraismo. Ci sono autori che usano il loro dialetto d’origine, cosa che a me non interessa. Mi interessa utilizzare il teatro come luogo di scambio di informazione sulla contemporaneità. Meno la contemporaneità è contestualizzata geograficamente e più io sono contento. Tutto questo ha a che fare con l’ebraismo. Perché l’ebraismo è per me che sono italiano una cultura “altra”. Qualcuno mi chiede: perché hai scritto del crollo dei Lehman e non hai scritto per esempio del Monte dei Paschi di Siena o del crac Parmalat? E’ semplice. Nel caso di Lehman la banca è fallita non per la disonestà dei loro amministrazioni, ma per una ragione epocale, tanto che tutt’ora si indaga su come  una banca “too big to fail” sia potuta crollare in quel modo. Nel caso del crac Parmalat o quello del Monte dei Paschi è molto diversa la storia: lì c’è qualcuno che ha sottratto i beni della banca a favore dei beni personali. Lì non c’è bisogno del drammaturgo ma della magistratura.

E’ anche vero che nelle storie di tutti, anche di coloro che ci sembrano i più meschini, c’è una falla, una fragilità, una incrinatura che può prendere una piega tragica.
Sicuramente, ma sarebbe stata tutt’altra storia.

Chi è Luca Ronconi?
Luca Ronconi è il giovane artista più sperimentale che io abbia trovato nella mia appassionata frequentazione del teatro d’avanguardia (dove vedo pullulare tantissimi “giovani vecchi”). Una volta Leo de Beradinis disse:< Avverto il bisogno e il dovere, alla fine di ogni mio spettacolo, di spazzare via tutti i segni che ho usato, e nell’opera successiva ricominciare da zero”. Ecco, Luca fa questo. Ogni volta si apre alla disponibilità che l’opera gli chiede. In questo spettacolo, realizza uno spettacolo di 5 ore di spettacolo quasi senza scenografia. Ci sono solo pareti bianche, due movimenti di scena a dir tanto. Ogni tanto passano delle scritte. E’ l’opposto di quello che lui faceva prima. Solo una testa come la sua può riprogrammare completamente i propri orizzonti temporali e stilistici. Con lui, ho potuto fare veramente il dramaturg, lavorando per mesi fianco a fianco per rimontare, spostare, cercare la cosa giusta.

Mi sembra inequivocabile  che – dall’opera su  Van Gogh (L'odore assordante del bianco) a Processo a Dio, dal Diario di Anna Frank al testo dedicato ad Anna Politvskojaja -  lei abbia scelto la linea del tragico. Cosa la trattiene dalla frequentazione del comico?
E’ vero che io utilizzo un registro drammatico, ma lo utilizzo in un modo molto ebraico. L’ironia è sempre dietro l’angolo. Detto questo, è vero, personalmente ho una resistenza nei confronti del comico, perché trovo che il rapporto che c’è in Italia con il comico sia  irritante. Il carnevale non serve come carnevale in sé, ma serve perché si sa che dopo ci sarà la quaresima. Ecco, specialmente la tv italiana cerca di soffiare sul comico qualcosa che non è liberatorio, ma liberato. Come se fosse sempre e solo carnevale. In Italia, per ridere, si deve sempre cercare lo sberleffo. C’è un’anima che è quella di Franti di De Amicis del libro Cuore che sarebbe molto bello che a una certo punto venisse superata e consegnata alla storia non novecentesca ma ottocentesca.

Che il riso sia oltraggioso lo dimostra anche la vicenda terribile di Charlie Hebdo. Ma la prima copertina dopo la strage portava un elemento nuovo: il motivo del perdono e del pianto.  Una diversa pietas. C’è ancora molto da capire su quella storia. Speriamo che nel frattempo non si compiano solo atti che mirano a sorvegliare e punire.
 Condivido questa idea. Sulla vicenda generale, penso che sarebbe molto più semplice dire che c’è uno scontro di civiltà  ma non è così. Nella Divina Commedia Maometto viene caricaturizzato in un modo che Charlie Hebdo in confronto è una rivista di suore di clausura. E questo avviene nel Trecento. Allora, cosa succede oggi nel 2015? Succede che in una nazione che non a caso è la Francia, una nazione in cui continua sottopelle la lezione di Voltaire, si prende in giro la religione e si compie un massacro. Ma è soltanto il sintomo - che va in coda alle Torri Gemelle - di qualcosa che è molto più grande dello scontro tra culture e religioni. La rete sei social network ha reso possibile il portare  a galla una differenza enorme di condizioni di vita. Un ragazzino di dieci anni negli Stati uniti non vive come un suo coetaneo in Pakistan, e questo è stato reso visibile come non era mai successo prima. Karl Marx e Rosa Luxemburg ai temi della fondazione del socialismo parlavano del lotta del popolo sfruttato contro gli sfruttatori. Ora invece è una guerra di liberazione degli schiavi contro gli schiavisti. Soffia un vento che dice qualcosa di molto diverso dalle guerre di religione.  Soffia un malanimo, un risentimento, un rancore, ed è dovuto al fatto che i social hanno comunicato questa differenza di posizione e la gente non ci sta più.

Il suo cane è il più fotografato del mondo.
E’ lui la vera star, l’elemento fondamentale della mia scrittura.

Le è accanto quando scrive?
Brownie è fantastico perché non ha alcuna possibilità di parlare.

Però lei non sembra uno di poche parole.
Mi piace parlare di arte. Ma le dirò una cosa. Io non sopporto la bassezza, l’ipocrisia, tutto ciò che  è piccola manovra, soprattutto quando vedo queste caratteristiche nelle persone che si occupano di arte. Ma siccome il 99, 9 per cento delle persone che fanno arte alla fine  si rivelano bestie capaci di qualunque meschinità, allora io preferisco una meravigliosa dorata solitudine.

Una solitudine a due, anzi a tre.
Ah sì, certo, non è una solitudine totale. C’è Luisa, che è l’attrice che ha interpretato molti dei miei testi ed è la mia compagna di 14 anni. E con noi Brownie, ma quello già lo conosce.

Com’è la vostra casa?
E’ una casa tra l’antico e il vecchio. E’ una casa particolare….Ci fa un freddo boia. E il freddo proprio non lo sopporto. Però è un luogo che amo molto in realtà. Non sopportavo più di vivere in appartamento, a Firenze.

Non ha mai nostalgia del consorzio umano?
Qualche volta avresti anche voglia di andare in ufficio, di vedere tutti i giorni le stesse persone, di ricordarti che il figlio del tuo collega fa il compleanno e fargli una festa. Io fondamentalmente dialogo sempre e solo con me stesso, e qualche volta quel dialogo mi è insopportabile.

Soprattutto quando ti accorgi che tuo peggior nemico è da quelle parti lì e ti accorgi che la tua voce sta prendendo una “certa” piega, una strada distruttiva, e non puoi fermarla, soprattutto non puoi prendertela con nessuno…
Ecco, e a quel punto finisci anche di dialogare. Tutto si ferma. Ma per fortuna non si ferma mai niente. Io sono convinto che il tempo che ci rappresenti come esseri umani non sia il presente né il futuro, ma il passato e finché siamo impegnati a riorganizzare, sistemare il passato, ci sarà sempre il pensiero, la vita attiva.
(Pubblicato su "Il Garantista")

lunedì 12 gennaio 2015

Ciao bella Anita, venerata da tutti e morta in povertà



Cominciamo dalla fine, da una delle ultime foto che i giornali avevano pubblicato. I grandi occhi di una donna che fissano l’obiettivo con una espressione stanca, dura, per certi versi assente. I suoi capelli sono ancora biondi. Questa donna vive da anni in una clinica. E’ su una sedie a rotelle. La vita sembra essersene andata dal corpo già da parecchio tempo. E non solo dalle ore 11.00 di domenica 11 gennaio 2015, quando, da un punto di vista strettamente medico, il cuore di Anita Ekberg ha smesso di battere. Aveva 83 anni, la bella Anita. Era nata in Svezia e viveva in Italia dalla fine degli anni Cinquanta. Scrivere il suo nome accanto all’ora del decesso sembra pura fantascienza. Eppure l’immagine di quella donna fatale, straordinariamente integra, si confonde oggi con una immagine che senza abbellimenti possibili racconta non tanto la vecchiaia e la malattia, quanto la solitudine. E la povertà. E solo nel 2011 Massimo Morais, nominato dal Tribunale di Velletri amministratore di so-stegno di Anita Ekberg,  che in Italia non aveva nessun parente, nessun marito – in realtà ne ebbe due: l’attore inglese Anthony Steel e l’americano Rik Van Nutter, senza contare la proposta di matrimonio di Frank Sinatra, la relazione ammessa con Gianni Agnelli e quella solo vociferata con Dino Risi – scriveva una lettera alla Fondazione Fellini perché l’attrice ricevesse un aiuto economico. La sua situazione era precipitata dopo una frattura al femore che aveva portato complicazioni su complicazioni. Non era più autonoma. E non aveva soldi per ristrutturare la casa in cui viveva, né poteva più mantenersi. Non sappiamo se quell’aiuto, dalla Fondazione o da qualcunaltro, sia mai arrivato, ma ne dubitiamo fortemente, visto che Anita Ekberg, la diva che aveva ispirato la prosa di Salvatore Quasimodo, che osannò «i colori botticelliani della sua immagine fisica» (Anita Ekberg, dialogo e fotografie, Lerici,1965), era ormai ricoverata da allora nella clinica San Raffaele a Rocca di Papa (Castelli Romani) in cui ieri mattina è morta. «Non aveva parenti in Italia e nessun compagno di vita da tanto tempo», spiega il suo avvocato Patrizia Ubaldi, «era in contatto con una nipote in Svezia. A Genzano aveva però amici che l’hanno assistita fino all’ultimo. Da disposizioni testamentarie, la Ekberg sarà cremata e le sue ceneri torneranno in Svezia. Una cerimonia funebre verrà celebrata in una Chiesa Luterana di Roma». Tutto cominciò quando Anita aveva appena 19 anni e venne eletta Miss Svezia. Era il 1950. Poco dopo, prese un volo per gli Stati Uniti, per partecipare al concorso di Miss Universo. Inaspettatamente, trovò il cinema ad attenderla. Nel 1953 esordì nella commedia di Charles Abbot, Viaggio al pianetaVenere. Era un piccolo ruolo, ma si suggellava anche in una forma di narrazione filmica, e non solo iconica, la sua appartenenza all’universo mitologico della dea Afrodite. In America girò una ventina di film, diventando una piccola star. Dopo aver recitato in Zarak Khandi di Terence Young, nello stesso anno (1956) vince il Golden Globe come attrice emergente. Giunta per la prima volta in Italia per sostituire Arlene Dahl nel cast del kolossal Guerra e pace di King Vidor (1955),  si stabilì definitivamente nel nostro Paese nel 1958. A questo punto, potremmo fermarci, perché quello che accadde dopo è entrato così fortemente nell’immaginario collettivo da renderne impossibile la traduzione. Fellini la sceglie per La Dolce vita (1960). Dobbiamo descrivere la scena? Il regista continuò a riprenderla come simbolo di una bellezza incantatrice. Ci torna alla mente  il volto turbato di un bigotto Peppino De Filippo di fronte alle maestose (ingigantite) forme di Anita in un cartellone che pubblicizza una marca di  latte: Le tentazioni di Sant’Antonio, episodio del film collettivo Boccaccio 70 (1962).  E la richiamerà due volte per chiederle di interpretare se stessa: ne I clowns (1971) e in Intervista (1987). Nel 1979 Anita posa per una copertina di Playmen in cui le sue forme erano molto cambiate. Inizia una fase declinante, in cui la sua bellezza differente, prematuramente trasformata e sfiorita, viene  usata sullo schermo: recita in Cicciabomba (1982) con Donatella Rettore, nel Conte Max di Christian De Sica (1991), in Cattive ragazze di Marina Ripa di Meana (1992) e Bambola (1996) di Juan José Bigas Luna con Valeria Marini. Declinazioni in minore di uno stesso tema che ha un unico compositore un po’ stregone alle spalle. Anita resterà sempre la donna vista attraverso lo sguardo incantato di Federico. Una apparizione che in un certo senso lui stesso disegnò, smembrando l’icona dell’attrice svedese in un corpo più una voce. E ci  piace immaginare che se Mastroianni/Fellini avesse potuto sentire quella voce chiamare Marcello, («Marcello, come here!»), adesso, in questi ultimi anni in cui Anita aveva veramente bisogno che qualcuno andasse da lei e la togliesse fuori da una condizione infernale, ecco, sì, Fellini e il suo alter ego Marcello l’avrebbero fatto sicuramente, sarebbero andati da lei. Anche se Anita aveva ormai perso da tempo le sue forme rotonde e la sua pelle bianca era più ruvida di un tempo. Pure ammettendo che se la sua sensualità che l’aveva trascinata dall’empireo delle modelle al mondo del cinema d’autore e poi discendendo verso la parodia, ecco, quella fatale capacità di chiamare a sé il desiderio, quella cosa lì, quella femminilità pazzesca, quasi disturbante nel suo candore, era svanita da tempo. Invece. Invece Anita se ne è andata impotente, condannata alla materia di una vecchiaia dolorosa che non ha avuto consolazione, né cura. Ma solo la distrazione del mondo.
(Pubblicato sul "Garantista")