venerdì 29 marzo 2013

Il nuovo romanzo di Paolo Di Paolo: ritratto di un combattente da giovane

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Ogni volta che incontriamo il mondo di Paolo Di Paolo, e Di Paolo stesso, ci ritorna tutto l’insano indicibile amore per il Novecento. E pensare che lui è nato alla fine del secolo scorso, nel 1983. Ma è proprio in virtù di questa sua età che dovrebbe essere poco più che acerba, e che invece acerba non è mai stata, che lo scrittore (e critico letterario) riesce a gettare una luce chiara, anomala, molto poco viziata dalla noia (sospettiamo che sia uno stato d’animo a lui sconosciuto), su certi paesaggi storici e vicende umane che comunemente si vanno  rottamando con allegria, abituati come siamo a far poltiglia di tutto per tentare di ingrandire noi stessi raccontando la nostra epica quotidiana in qualche stato di fb. Meno che minimali, confusi, opinionisti dell’ultimo secondo, ci siamo ridotti a non sentire nulla non solo di quello che resta ma di ciò che accade, pienamente, intensamente, accade. Parliamo qui del secolo scorso anche perché Paolo Di Paolo ha da poco lanciato una rivista letteraria Orlando, che dedica una pagina intera alle storiche riviste italiane, e nel primo numero si può rileggere l’audace vicenda di 900, la rivista fondata da Bontempelli nel 1926. Ed è proprio il 1926 l’anno che Paolo Di Paolo indaga nell’ultimo suo romanzo, Mandami tanta vita (Feltrinelli, pp.160, 13 euro), che si svolge tra Torino e Parigi, nei giorni in cui, a soli 24 anni, muore Piero Gobetti. Un romanzo storico e intimo, che si dipana attorno ad un doppio transfert.
Per un verso c’è lui, Gobetti, un ragazzo potente che in pochi anni di vita fu capace di dire no alla retorica, alla tirannide, alla mediocrità, ai compromessi, ma che qui viene narrato nel momento del trapasso, con il corpo che ama e che muore.
E dall’altra c’è Moraldo, nella finzione letteraria uno studente torinese segnato dalla paura che per lui la vita non sia altro che questo: «ciò che non lascia traccia».
Moraldo vive del mito di Gobetti ma il loro incontro non avverrà secondo piani di logica comprensibile: si sfioreranno su una panchina di Parigi, in un incrocio doloroso di destini che si stende su una delle pagine più belle del libro: « (ndr. Moraldo) ragiona su quanto siano diverse, da vicino, le persone che abbiamo idealizzato. Le abbiamo astratte dalla realtà fino a farne i nostri feticci, i nostri fantasmi. Che ne è, per esempio, dell’aria spavalda che gli attribuiva? Che ne è della forza. Della sicurezza…Adesso, accanto a lui, l’oggetto della sua ammirazione, della sua invidia, del suo rancore sembra sperduto. Fragile al punto che da un momento all’altro potrebbe svanire, dissolversi, lasciando vuoto e inerte sulla panchina, come un guscio, il cappotto stesso».
Svanirà, Gobetti. Ma non svanirà con lui il segno che ha lasciato perché, come si dice in un’altra pagina del romanzo, «il segno non è che questo: essere se stessi dappertutto».
Il nome di Moraldo arriva dal mondo dei Vitelloni, è quel Fellini ragazzo che prende il treno da Rimini e arriva a Roma per violare un destino che sembrava scritto al vento di un litorale di precoci decadenze e che invece si compirà sotto tutta un’altra stella, sotto il cielo di una città gigantesca e labirintica che il regista “straniero” contribuì a inventare.
E mentre leggiamo di questo nuovo Moraldo e di questo inedito, vulnerabile Gobetti, vediamo anche il volto di Paolo Di Paolo, quella serenità del combattente che non ama la lamentazione e preferisce lottare per lasciare anche lui il proprio segno. Ma, a differenza di molti suoi coetanei languidamente affezionati ad un orfanismo solo dichiarato, per essere completamente se stesso Di Paolo ha sempre sentito il bisogno di dialogare: con i personaggi del Novecento, i vivi e i morti. Una inclinazione costruttiva che nella preparazione di questa solidissima, matura, a tratti struggente, opera, trova il suo più chiaro compimento: «Mi porto dietro l’idea di questo romanzo dal 2008: stavo per compiere gli anni che Piero Gobetti (1901-1926) non ha compiuto. Non sapevo molto di lui, ma quel poco mi ha spinto a immaginare. Nel gennaio del 2009, a Parigi, sono andato al cimitero del Père-Lachaise in cerca della sua tomba. Era – accade di rado – chiuso per ghiaccio e neve. Antonio Tabucchi, che avrei incontrato quello stesso pomeriggio, mi incoraggiò a non abbandonare questa storia…Per la scrittura, invece hanno contato molto due fotografie torinesi. La prima porta la data del 15 febbraio 1926. Si vede un banco di vini, è una fiera di carnevale. È il giorno in cui, lontano dalla sua città, a Parigi, muore Gobetti. L’altra l’ho scattata io stesso: al numero 52 di corso San Maurizio, la casa in cui abitò Giacomo Debenedetti. Le lunghe conversazioni con il figlio Antonio, che in La fine di un addio e in Giacomino ha fatto rivivere il clima degli anni Venti e Trenta a Torino, mi hanno aiutato a indagare in quelle giovinezze prodigiose» scrive Di Paolo nella postfazione di Mandami tanta vita.
La documentazione storica viene assorbita nella narrazione come se non ci fosse rottura né baratro tra le due sfere, pubbliche e private, realistica e immaginaria. Anche se la luce che fa l’una aiuta l’ombra dell’altra a tradirsi e rivendicare il suo diritto ad essere, la sua inequivocabile bellezza di ombra che fa, appunto, luce. 
Ma come riesce un’ombra a fare così tanta luce? Se c’è un segreto nella scrittura e nella vita intellettuale di Paolo Di Paolo, a noi sembra che questa sua qualità si stagli nella sfera dell’esattezza, in un cortocircuito tra zone inconsce e attività consce. Non c’è mai approssimazione nel suo modo di operare. Come rivela questo dettaglio fornito dallo stesso autore: «Ad un certo punto, sentivo il bisogno di Moraldo camminasse per Torino sotto la pioggia.  Il romanzo si ambienta nei freddi giorni di febbraio del 1926. Era probabile che piovesse. Probabile, ma non certo.  Mi sono fermato. Poi, sfogliando i giornali dell’epoca, ho trovato un riferimento alla pioggia che a dirotto aveva funestato quei giorni di Carnevale del 1926. Così ho finito di scrivere serenamente la mia scena».
(pubblicato sul settimanale "Gli Altri")

sabato 9 marzo 2013

Elogio delle pietose bugie

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Ci inventiamo vite fittizie con il desiderio di essere accettati. Gonfiamo il curriculum per fare bella figura. Ci creiamo arabesche specializzazioni fatte “altrove”, tanto chi lo conosce l’altrove, chi ci è mai andato a fare un giro oltre questa nostra Italietta malata e arrogante? Il caso Giannino ci porta a riflettere sulla via “italiana” che prende la bugia. Un collega forse invidioso (Zingales)  ci fa sapere dagli Stati Uniti che l’ex amico (Giannino), candidato alla direzione di Fermare il declino, aveva mentito in merito ad un master in economia conseguito a Chicago. Che poi, diciamola tutta, non ci sarebbe niente da invidiare a chi avrebbe preso lezioni da quei deliranti pescecani (su cui, per dovere di cronista teatrale, segnaliamo Chicago’s boys, un acuto lavoro di Renato Sarti ispirato a Shock economy di Naomi Klein, che mostra un prototipo di criminale dell’alta finanza annegare in una paludosa vasca da bagno, dopo aver inferito contro una donna ridotta a serva).  Insomma, Oscar Giannino a Chicago non c’è mai stato e così scoppia lo scandalo, con tanto di lacrime e sangue e minacce di dimissioni. In questo caso, la pubblica gogna ha funzionato. Ma da noi non si sa mai che giri farà la roulette. Uno la fa franca e l’altro invece — “colpevole” dello stesso “misfatto” — viene impalato in piazza con tanto di sghignazzate degli spettatori paganti, sollevati dal fatto di non essere stati scoperti loro nell’atto di mentire. L’unica legge che vale, lo diceva placidamente, tragicamente Woody Allen in “Match Point”, è la legge del caos, più che quella del caso. Rimane da ragionare sul perché ci sia sempre bisogno di far vergognare qualcuno. Che c’è di bello nell’esposizione delle lacrime di un signore che ammette di aver gonfiato il proprio curriculum? Niente c’è di bello. Mentre c’è molto di patetico, dove l’aggettivo non ha più niente del sostantivo che l’ha generato, il compianto pathos. Il patetico va invece simpaticamente a braccetto col ridicolo. Per via delle sue dimensioni piccole-piccole. Nella menzogna fatta bene e sostenuta ad arte, invece, ci sarebbe del grandioso. Il grandioso del comico, quello alto e feroce, innestato su un meccanismo di critica sociale, che è stato rappresentato così bene da I soliti ignoti e da altri capolavori del genere. Totò era il principe della truffa, il grande imbroglione lunare, ma i nostri intellettuali (tranne poche eccezioni) l’hanno sempre trattato con sufficienza. Per mancanza di immaginazione.
Eppure, la bugia ha tradizioni nobili. Pensiamo alla dimensione quasi metafisica del Bugiardo di Goldoni, che alla fine viene lasciato solo, anche se lui ce la mette tutta per dimostrare alla consorteria dei mediocri che i suoi non sono miseri sotterfugi ma «spiritose invenzioni».
E quanta dinamite creativa c’è in Pinocchio? Infinita. A tal punto che neanche il suo autore se ne accorse, come sosteneva quel genio di Carmelo Bene, quando asseriva che Collodi non aveva capito un cavolo di Pinocchio. E per dimostrarlo, realizzò fantastiche variazioni sulla figura archetipica del burattino/bambino, incatenandosi ad un banco di scuola, simbolo di ogni supplizio a venire.
Perché è nell’aula scolastica che va in scena il primo teatro della mortificazione, è lì che si decide tutto, se da grande sarai un essere amato (e premiato) oppure un piccolo ladro di attenzioni (e lodi) che al fondo di te ritieni non meritate. Ed è per questo che i bugiardi in genere partono sempre da lì, dal curriculum scolastico. Abbiamo imparato presto che se saremo obbedienti e bravi, se sapremo dire la poesia a memoria, allora sì che saremo rispettati. In caso contrario saremo sculacciati e bacchettati.
Ma l’autorevolezza non dovrebbe passare dall’esibizione delle tante cose che ci siamo ficcate in testa. Anche perché, se proprio siamo costretti a parlare di filastrocche imparate, la poesia saremmo meglio farla che impararla, e per poesia intendiamo anche una certa possibilità che ci è sempre data   da qualunque buco del mondo veniamo e qualunque scuola o non-scuola abbiamo frequentato   di fare della nostra vita una piccola opera d’arte. E la storia universale è piena di biografie di grandi personaggi che vantano alla fine un bel fallimento scolastico, una precoce caduta che verrà poi interpretata come l’unica grande fortuna della vita.
Rispetto al modello punitivo scolastico, il Lelio di Goldoni o il Pinocchio di Carmelo Bene o il Totò principe della italiana patafisica, rappresentano dei modelli di anarchia felice. Ma noi non lo capiamo perché i cattivi maestri ci hanno insegnato a leggere solo il bignami della storia, per cui alla fine Lelio resta solo, a Pinocchio crescono naso e orecchie da asino, e i personaggi di Totò fanno ridere per il loro assurdo che non ci riguarda. Non siamo allenati, invece, a starcene dalle parti di quelle “spiritose invenzioni”, a carpire la natura sulfurea, ribelle, esplosiva, del personaggio di Goldoni. Come ci è difficile immaginare che Pinocchio dovesse essere amato proprio perché aveva in odio la scuola e in simpatia il paese dei balocchi, e  perché manifestava un rapporto di sana ambivalenza (e non di sola obbedienza)  rispetto alle figure genitoriali, Geppetto sì, ma soprattutto l’angosciante fatina turchina, che non perdeva occasione di terrorizzarlo con le sue apparizioni/sparizioni nei panni della madre-sorella morta. 
Dire bugie, come faceva Pinocchio, è alla fine un modo per evadere dai perimetri mostruosi del sistema scuola-famiglia, è una pura una strategia di sopravvivenza.
Non vogliamo ovviamente qui affermare che tutti i bugiardi sono dei grandi artisti, specialmente in un Paese come il nostro che mostra una tolleranza della menzogna legata al dominio maschile. Ma c’è menzogna e menzogna. Alcune bugie, come recita il titolo di un bel libro di Irene Dische, possono anche essere pietose. Pietose bugie. E non patetiche. Ma pietose, cioè cariche di pietà. Perché si può essere coscienti di non avercela sempre fatta, di non essere stati bravi ogni volta, e al tempo stesso pensare che non per questo saremo meno amati, e rispettati. Se arriveremo a fare questo ragionamento su di noi, non ci dovrebbe essere difficile farlo anche sull’altro; altrimenti, parliamoci chiaro, che ci siamo andati a fare a scuola, che ci è servito leggere e scrivere e fare master in America? Per redarre un curriculum da mandare a qualche Chicago boy in salsa pecoreccia? Se non è così, di fronte ad una menzogna che non ha l’aspetto di un crimine, magari ci faremo una bella risata, ma non ci verrà mai voglia di impiccare il bugiardo sulla pubblica piazza, senza che questo pensiero ci rimandi automaticamente all’immagine del nostro povero collo appeso all’ultimo laccio.
(pubblicato su Gli Altri)