«Ero a Parigi e una notte sogno che andavo in cantina.
Sento che c’era qualcuno che dovevo andare a trovare. Lì sotto trovo una
ragazza scarmigliata, con delle ragnatele addosso. Vado verso di lei.
L’abbraccio e mentre la abbraccio capisco che lei non è pazza. Mi guardo tutto
intorno a questa cella- caverna e vedo tutte pagine di poesie e disegni che lei stava facendo». Nel raccontare il sogno fondativo della sua vita,
Rossana Campo, 49 anni, scrittrice e artista visiva, si mostra disposta a
scendere con noi in quella stessa cantina dove si sta in due: chi soffre e chi
prende la forza da quel dolore, chi se ne sta chiuso e chi gioisce per il solo
fatto di essere vivo, chi frequenta l’abisso e chi deve a tutti i costi uscire
alla luce del sole. Siamo nello studio che Rossana Campo condivide con il suo
compagno storico, Nanni Balestrini, attorniati da pastelli e opere incompiute.
L’autrice di In principio erano le
mutande (16 ristampe, 200.00 copie vendute) a cui sono seguiti negli anni
altri dieci romanzi, ha appena dato alle stampe un libro autobiografico, intimo,
che narra il suo incontro con il buddismo, Felice
per quello che sei, confessioni di una buddista emotiva, (Giulio Perrone,
10 euro). Leggerlo, ci ha fato lo stesso effetto del cubo blu di Lynch che in Mulholland Drive apre altri mondi che
non sapevamo di avere. Solo che i colori sono più chiari.
Un libro sulla
spiritualità in una collana che si dice delle passioni e che si traduce “le
nuove onde”. Confessioni duna buddista emotiva. Sembrano paradossi….
Ma non lo sono. Quando mi è stato chiesto di trattare da
romanziera un tema che non era di fiction, la mia passione dominante, non è
stato facile orientarsi. Come studiosa, mi sono anche interessata al buddismo
tibetano e al buddismo zen, non solo al buddismo di Nichiren Daishonin che poi
ho scelto…. Ma non pensavo fosse utile fare un libro storico. La questione era:
come parlare per un verso ai miei lettori
storici che mi seguono da vent’anni sia a lettori che magari si interessano al
tema del buddismo? Così ho deciso di
cominciare da me, dalle origini. Fondamentalmente io racconto storie che non sono mai la cronaca esatta di quello che
ho vissuto, ma non possono che legarsi al vissuto. In questo caso, mi sono
guardata indietro ripensando a come è cominciato tutto, sedici anni fa….
Quindi Genova, i
primi anni, i primi amori sbagliati, un dolore precoce, l’inizio di una erranza
che non si sapeva ancora dove avrebbe portato.
Adesso quando ripenso ai miei anni genovesi, ci penso con
tenerezza e malinconia, ma sono stati anni belli tosti. Mi ero appena laureata,
avevo cominciato a scrivere i primi racconti e lavoravo in una cooperativa. Vivevo
in una casa cascante nei vicoli. Storie d’amore infelici, una peggio
dell’altra.
C’era una coazione a
ripetere gli stessi errori?
In principio erano le mutande era costellato di infami: il primo
infame, il secondo infame, il terzo infame….Adesso, dopo sedici anni di pratica
buddista, chiaramente non vedo più così le cose. Saranno stati pure stronzi e infami, il fatto è che ero io che me li andavo
a cercare. Se non era un caso clinico, non lo volevo. I bravi ragazzi neanche
li guardavo.
Ad un certo punto la
fascinazione per il tipo “infame” è caduta, ma ha comunque continuato a
raccontare di sbandati e outsider.
Come romanziera, sono interessata ovviamente ai conflitti,
agli incontri con i borderline. La storia: “Ho incontrato un bravo ragazzo, ci
siamo spostai e siamo finiti da vent’anni” non interessa a nessuno.
Che persone sono i
suoi genitori?
Intanto sono due persone del sud emigrate al nord. Proletari.
Essere emigrati al nord negli anni Sessanta e Settanta era come essere oggi
arabi e africani. C’era allegria a casa, ma si discuteva anche tanto. Era
difficile vivere in quelle condizioni di povertà. Ricordo molte scene di
umiliazione.
E come è successo che
ad un certo punto sceglie Parigi come sua città adottiva?
Erano i primi anni Novanta e volevo andarmene dall’Italia.
Ero disposta a fare qualunque mestiere (la baby sitter, la cameriera) per
campare, ma poi è successa una cosa inaspettata: il manoscritto del mio primo
romanzo, In principio erano le mutande,
viene scelto da Carlo Feltrinelli, e lì
la vita cambia completamente. D’improvviso ero una giovane scrittrice
riconosciuta che poteva pensare di poter continuare a fare la scrittrice a
Parigi. Certo ci sono stati anche degli ostacoli, perché ho dovuto lottare
contro quelli che a Genova chiamiamo “i bulacchi di merda” che venivano
lanciati contro me che come donna scrivevo di desiderio e di amore (anche non
stavamo certo parlando di un romanzo erotico)….Per fortuna, da subito, ho
stabilito un legame con i miei lettori, soprattutto lettrici, che si sentivano
rispecchiate nei miei romanzi. Non esiste una soddisfazione maggiore per chi
scrive. Anche se io ho dato sempre grande importanza al fatto stilistico.
D’altro canto lei arrivava
dalla scuola di Sanguineti…
Sanguineti è stato un vero maestro, e lo dico con cognizione
di causa, essendo buddista e conoscendo il significato della parola maestro. La
grande lezione dell’avanguardia stata
quella di insegnarci a fare opera di rottura rispetto ai linguaggi
codificati. In quel momento circolavano
romanzi di persone di trent’anni che si esprimevano con un linguaggio
ammuffito, che non mi interessava. Io ho cercato di andare in un’altra
direzione, più vitale. Le donne soprattutto, volevo raccontarle per come le
vedevo io e non come mi arrivavano dalla letteratura, o dal cinema.
“Bambine chiuse,
ragazze chiatte e mamme bisbetiche” è il titolo di una delle sue mostre.
E’
così che le vede le donne?
Da piccola, guardavo le donne della mia famiglia e non riconoscevo
in loro le donne lacrimose e sottomesse che la letteratura ritraeva. Mi
sembravano, piuttosto, delle belve: donne forti, sanguigne, incazzate nere. A
partire dai loro corpi, dalle loro presenze fisiche. Al contrario degli uomini,
che sentivo molto fragili.
Ritorniamo a quella
ragazza di 28 anni che arriva a Parigi con la sua valigia. Cosa vede?
Parigi era stata annunciata dalla Parigi letteraria che
avevo frequentato attraverso certi miti letterari: Henry Miller, Gertrude
Stein. Trovo una città meravigliosa. Faccio amicizia con greci, africani ,
iraniani…Il mondo mi si rivela così. Sento che sono finalmente uscita dalla
provincia.
Lei è così estroversa
come sembra?
Da un lato sono un po’ orsa, amo andare al cinema da sola e
mi capita di evitare il contatto con gli umani. Poi però se decido di entrare
in un bar e parlare con la gente, succede che le persone si avvicinano e
cominciano a raccontarmi la loro vita. Diciamo che instauro subito un contatto
profondo.
Cosa rappresenta Roma
per lei?
Sono arrivata qui una decina d’anni fa, ma ci vivo più stabilmente
solo da tre anni, anche se continuo ad andare spesso a Parigi. Questa zona
attorno a piazza Vittorio somiglia molto alla Parigi che conosco e che amo. In
più, c’è la lingua. Per uno scrittore è importante immergersi nelle sonorità
della lingua in cui scrive. Parigi mi ha dato la libertà dell’anonimato, Roma
mi piace per il tipo di relazione che si crea tra le persone. E per la luce. Il
mio corpo si sente più a suo agio qui.
In questo studio ci
sono le opere di Rossana Campo e le opere di Nanni Balestrini. Come vi dividete
gli spazi e i tempi del lavoro?
Abbiamo orari diversi e modi di lavorare complementari.
Comunque ci mostriamo tutto solo alla fine: questo accade sia per i libri che
per le opere artistiche. Pur essendo molto diversi (lui è lombardo di madre
tedesca), io d’origini del sud, abbiamo lo stesso tipo di pudore rispetto alla
creazione. Sappiamo stare insieme ma sappiamo anche stare da soli.
Come ha incontrato il
buddismo?
Negli anni parigini, nonostante fossi una scrittrice e
realizzata e avessi iniziato a vivere il grande amore con Nanni, sentivo una
specie di inquietudine. Cercavo qualcosa. Già a Genova ero entrata in contatto
con il buddismo, ma a Parigi accade un incontro fondamentale. E come scrivo nel
libro, vado a sentire una conferenza di un monaco zen francese e rimango
colpita dalle cose che dice e dal modo con cui le dice. Quelle parole mi risuonano in profondità.
Le persone che vedevo da bambina e andavano in chiesa mi
sembrano ipocrite. Quella volta invece sento qualcosa si sincero, di autentico:
le cose che diceva il monaco zen venivano da un posto profondo. Ho cominciato
allora a fare i miei studi e alla fine sono approdata al buddismo giapponese di
Nichiren Daishonin. Mi piaceva anche il fatto che agli incontri potessero
trovarsi insieme, per esempio, una contessa francese e un taxista antillese.
Anche questa parte umana, democratica, non è trascurabile nella pratica. Si
parte da sé, dalla sofferenza che si vive.
Nel suo libro, lei
parla di una gemella “un po’ scuretta che abita dentro di me” e che non si deve
smettere di nutrire….
Accogliere la propria gemella scura è la vera grandezza. E
questo me l’ha insegnato il buddismo quando parla della preziosità di ogni vita
umana, la tua e di ogni essere senziente. Tutto ciò può rimanere astratto, ma
quando impari, durante la meditazione, a calare quest’insegnamento dentro di
te, capisci che non bisogna rinunciare a nessuna delle nostre parti, neanche quelle
che ci ricordano le umiliazioni e le ferite subite. Prima mi facevano male, ora
mi fanno sentire più viva. La differenza è che oggi non alzo un muro rispetto a
quelle sofferenze ma le curo, le innaffio.
Dopo lo sconfinato
amore per Celine, sono sorte altre grandi passioni letterarie?
Ce ne sono molte altre, ma come si fa ad essere più grande
di Celine?
I materiali che lei
usa (letterari e artistici) vanno a disegnare due differenti confini del corpo?
La mia poetica in fatto di pittura ma anche di scrittura,
nasce da un’attrazione per l’elemento vitale e “brutale”: da Picasso a Matisse,
da Dubuffet al gruppo Cobra. C’è una parola bellissima in francese che è gaucherie e che significa l’essere maldestri.
Mi sono sempre interessata anche come osservatrice a tutto quello che scappa
dal perbenismo, dalla corazza culturale, dall’adattamento sociale…Ho
ricominciato a dipingere nei primi anni Duemila e ho voluto esplorare anche la
parte emotiva, corporea, tutto quello che siamo “sotto”.
Perché “buddista
emotiva”?
Come donna, come buddista, come artista e come scrittrice, ho
sempre cercato di tenere viva la mia parte infantile ed emotiva. Senza per
forza dover finire alcolista (non la cito a caso perché è la dipendenza tipica,
la malattia professionale degli scrittori), ma diventando una persona in grado
di mantenere il contatto con la propria emotività senza farsene travolgere.
Felicità è una parola
schiacciante. Lei sinceramente pensa che sia possibile essere felici?
Si. Io la provo spesso. E’ una felicità autogenerata, che
non viene dall’esterno.
Ha paura di morire?
Come scrittrice, ho sempre avuto un’attrazione per la
perdita. Non temo il perdersi e neanche il morire. Jung parla spesso di questa
condizione panica che è stranamente felice e che io avevo fin da bambina. Cade
l’ego e ti senti unito all’universo.
Che rapporto ha con
il cibo?
Sono vegetariana. Quando sono a Genova, vado pazza per la
focaccia e le trofie al pesto. E poi sono golosa di dolci, gelati soprattutto.
Frequenta la società
letteraria romana?
Non molto.
E cosa pensa del
gruppo TQ (generazione trenta-quarant’anni)?
Non molto.
(Pubblicato su "Gli Altri")
1 commento:
Rossana Campo è una scrittrice importantissima per mia sorella maggiore. Coi suoi libri le ha tenuto compagnia nei momenti neri. credo che li abbia proprio tutti.
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