Lo diciamo subito. Qui non troveremo una “opinione” sulla
fine della vita. Anzi, a voler essere coerenti, lo spazio dovrebbe essere
bianco. Perché la conversazione con
Franco Rella, uno dei nostri maggiori filosofi – docente di estetica e autore
di opere importanti come Il silenzio e le
parole, Ai confini del corpo, Soglie, Interstizi, Elogio dell’ombra
– gira intorno alla questione dell’indicibile. E questo è tanto più forte in
questo caso, dove il discorso si aggancia ad un’opera (Bella addormentata, il film di Bellocchio) che va a toccare gli
archetipi e i tabù profondi della nostra società. Rella non teme di nominare politica
e di chiamare in causa le responsabilità della Chiesa in materia di eutanasia,
consapevole però del fatto che la vera questione, alla fine, è angoscia della
morte, che in questo inizio di terzo millennio si è completamente accasata
nelle nostre esistenze molli e impaurite, al punto da farci credere che il
problema sia sempre altrove, fuori di noi, da qualche altra parte, tranne che
qui dove siamo noi, esseri viventi e, che lo vogliamo o no, anche morenti.
La questione della
fine della vita e della scelta di morire è trattata con nessun pudore e anche
in questo caso, ancor prima di aver visto il film, l’Italia si era schierata.
Sta di fatto che nei salottini privati e pubblici tutti esprimono la propria opinione.
Che cosa succede a livello profondo di società? E che ruolo giocano le
interferenze della Chiesa e della politica sulle vite dei singoli individui?
Al di là delle interferenze della Chiesa, che sono
insopportabili, ci sono le interferenze politiche. Che su una questione così
delicata come il passaggio dalla vita alla morte uomini come Giovanardi debbano
arrivare con scarpe chiodate a dire cosa è giusto e cosa è sbagliato, non può
essere tollerato da chi individualmente si trova a vivere il peso di una scelta
così spaventosa. Nel passato, questo rapporto era gestito dalla saggezza dei
medici che aiutavano il passaggio. E credo che sia giusto aiutare chi è
costretto a fare un passo così incognito. Anche nel caso di politici che hanno
tutte le migliori intenzioni (penso a Ignazio Marino e al testamento biologico),
comunque il ragionamento finisce per essere banalizzato. Nei casi peggiori,
invece il discorso si fa letteralmente immondo, perché diventa campo fertile di
una speculazione politica e di una battaglia ideologica, calpestando gli esseri
umani e i loro diritti.
Come immagina questo
rito di passaggio?
In questi momenti, il tempo umano tocca il tempo non umano.
Parlo dell’eterno inteso in termini non religiosi. E’ un tempo che è “assenza
di tempo”. Il diritto di ciascun
individuo a decidere della propria morte è inalienabile, ma se per qualunque
circostanza la persona non è nella capacità di decidere, allora questa scelta
non può che farla chi lo ha sorretto fino a quel momento, chi gli è stato accanto in questa vita.
L’ossessione del
restare in vita a qualunque costo è il sintomo di una malattia tutta contemporanea?
E’ il sintomo di una società come la nostra che è fondata
sull’ipocrisia. Per gli antichi romani, il gesto di tagliarsi le vene come
Seneca in una vasca da bagno non era scandaloso.
Cosa ha pensato del
suicidio assistito di Lucio Magri?
L’ho trovato un gesto dignitoso: la scelta di morire in
piedi, accompagnato dal mondo che ti è stato vicino. Mi ha colpito molto anche
l’autobiografia di Vattimo, quando racconta del momento in cui accompagnò il
proprio compagno a morire in Olanda (ma la tragedia poi accadde in aereo). L’ho
trovato struggente. Umano.
Beppino Englaro non è un personaggio del film di Bellocchio. Come vede lei questa figura di padre?
Devo dirle la verità. L’ho sempre visto in maniera
ambivalente. Da un lato ne ho ammirato il coraggio, dall’altro ho sentito eccessivo
il fatto di aver voluto fare di quella sua storia una bandiera, facendo
diventare il caso Eluana un caso sì paradigmatico ma anche strumentale. In
questa scena, manca proprio lei, Eluana, la pìetas per una ragazza che forse
avrebbe potuto portare alla scelta paterna di abbassare molto prima le luci
sulla sua esistenza.
Cosa ci fa così tanta
paura?
La rimozione della morte è arrivata ad un livello
parossistico. Siamo presi da un delirio tecnologico, come se la tecnologia
potesse salvarci dal morire. In Italia, l’idea politica dell’immortalità è
tutta berlusconiana e si è radicata.
Quando per “gli Altri”
l’abbiamo intervistata la prima volta sulla morte e altre catastrofi dopo quello
che era successo in Giappone, lei ci parlò da una stanza d’ospedale dove le
avevano appena messo una valvola al cuore. Questa esperienza personale ha
cambiato il suo rapporto con la morte e soprattutto il pensiero della fine?
Il pensiero della morte mi ha accompagnato fin
dall’infanzia, ma non nel senso che flirtavo con la morte, solo che ci pensavo.
In tutte le mie opere vi faccio costante riferimento, sia quando rifletto sui
limiti del corpo sia quando mi fermo a ragionare su Proust. Naturalmente
nessuno si può figurare la morte. Non è che io immagini il paradiso o
l’inferno. E’ una questione interstiziale.
Ecco, interstiziale è
la parola chiave. Nel suo libro “Pensare e cantare la morte” lei si sofferma
sulle parole di poeti e letterati che hanno saputo leggere gli spazi
interstiziali, le soglie, gli sconfinamenti.
C’è sempre un modo per guardare attraverso, negli spazi tra
le cose. E’ attraverso certe pagine in particolare che si possono aprire altri livelli
di coscienza che restituiscono immagini più profonde della nostra esistenza.
Cosa pensa del cinema
di Bellocchio?
Non ho ancora visto La
bella addormentata, ma penso che sia un autore di grande onestà
intellettuale. Poi magari se dovessi
scegliere tra Apocalypse Now di Coppola e un film di Bellocchio sceglierei
Apocalypse Now, però questo non
toglie niente alla sua autorialità.
Che libri
consiglierebbe, per aiutarci ad affrontare il tabù della morte?
Tutti i grandi libri contengono pagine sulla morte. Penso al
Freud di Al di là del principio del
piacere. Penso a Proust, quando scrive della morte, di tutto ciò che, dice,
«entrava
in me».
Penso al celebre apologo di Kafka che dice «Via da qui».
Penso a Roth, a L’animale morente.
Immergersi in queste letture è un modo per avvicinarsi a dire ciò che non
vogliamo neanche pensare, all’indicibile, a ciò che non è figurabile.
(Pubblicato sul settimanale "Gli AltrI")
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