sabato 22 settembre 2012

Franco Rella sull'eutanasia: la morte, la cosa che non si può dire né pensare



Lo diciamo subito. Qui non troveremo una “opinione” sulla fine della vita. Anzi, a voler essere coerenti, lo spazio dovrebbe essere bianco.  Perché la conversazione con Franco Rella, uno dei nostri maggiori filosofi – docente di estetica e autore di opere importanti come Il silenzio e le parole, Ai confini del corpo, Soglie, Interstizi, Elogio dell’ombra – gira intorno alla questione dell’indicibile. E questo è tanto più forte in questo caso, dove il discorso si aggancia ad un’opera (Bella addormentata, il film di Bellocchio) che va a toccare gli archetipi e i tabù profondi della nostra società. Rella non teme di nominare politica e di chiamare in causa le responsabilità della Chiesa in materia di eutanasia, consapevole però del fatto che la vera questione, alla fine, è angoscia della morte, che in questo inizio di terzo millennio si è completamente accasata nelle nostre esistenze molli e impaurite, al punto da farci credere che il problema sia sempre altrove, fuori di noi, da qualche altra parte, tranne che qui dove siamo noi, esseri viventi e, che lo vogliamo o no, anche morenti. 
La questione della fine della vita e della scelta di morire è trattata con nessun pudore e anche in questo caso, ancor prima di aver visto il film, l’Italia si era  schierata. Sta di fatto che nei salottini privati e pubblici tutti esprimono la propria opinione. Che cosa succede a livello profondo di società? E che ruolo giocano le interferenze della Chiesa e della politica sulle vite dei singoli individui?
Al di là delle interferenze della Chiesa, che sono insopportabili, ci sono le interferenze politiche. Che su una questione così delicata come il passaggio dalla vita alla morte uomini come Giovanardi debbano arrivare con scarpe chiodate a dire cosa è giusto e cosa è sbagliato, non può essere tollerato da chi individualmente si trova a vivere il peso di una scelta così spaventosa. Nel passato, questo rapporto era gestito dalla saggezza dei medici che aiutavano il passaggio. E credo che sia giusto aiutare chi è costretto a fare un passo così incognito. Anche nel caso di politici che hanno tutte le migliori intenzioni (penso a Ignazio Marino e al testamento biologico), comunque il ragionamento finisce per essere banalizzato. Nei casi peggiori, invece il discorso si fa letteralmente immondo, perché diventa campo fertile di una speculazione politica e di una battaglia ideologica, calpestando gli esseri umani e i loro diritti.
Come immagina questo rito di passaggio?
In questi momenti, il tempo umano tocca il tempo non umano. Parlo dell’eterno inteso in termini non religiosi. E’ un tempo che è “assenza di tempo”.  Il diritto di ciascun individuo a decidere della propria morte è inalienabile, ma se per qualunque circostanza la persona non è nella capacità di decidere, allora questa scelta non può che farla chi lo ha sorretto fino a quel momento,  chi gli è stato accanto in questa vita.
L’ossessione del restare in vita a qualunque costo è il sintomo di una malattia tutta contemporanea?
E’ il sintomo di una società come la nostra che è fondata sull’ipocrisia. Per gli antichi romani, il gesto di tagliarsi le vene come Seneca in una vasca da bagno non era scandaloso.
Cosa ha pensato del suicidio assistito di Lucio Magri?
L’ho trovato un gesto dignitoso: la scelta di morire in piedi, accompagnato dal mondo che ti è stato vicino. Mi ha colpito molto anche l’autobiografia di Vattimo, quando racconta del momento in cui accompagnò il proprio compagno a morire in Olanda (ma la tragedia poi accadde in aereo). L’ho trovato struggente. Umano.
 Beppino Englaro non è un personaggio del film di Bellocchio. Come vede lei questa figura di padre?
Devo dirle la verità. L’ho sempre visto in maniera ambivalente. Da un lato ne ho ammirato il coraggio, dall’altro ho sentito eccessivo il fatto di aver voluto fare di quella sua storia una bandiera, facendo diventare il caso Eluana un caso sì paradigmatico ma anche strumentale. In questa scena, manca proprio lei, Eluana, la pìetas per una ragazza che forse avrebbe potuto portare alla scelta paterna di abbassare molto prima le luci sulla sua esistenza.
Cosa ci fa così tanta paura?
La rimozione della morte è arrivata ad un livello parossistico. Siamo presi da un delirio tecnologico, come se la tecnologia potesse salvarci dal morire. In Italia, l’idea politica dell’immortalità è tutta berlusconiana e si è radicata.
Quando per “gli Altri” l’abbiamo intervistata la prima volta sulla morte e altre catastrofi dopo quello che era successo in Giappone, lei ci parlò da una stanza d’ospedale dove le avevano appena messo una valvola al cuore. Questa esperienza personale ha cambiato il suo rapporto con la morte e soprattutto il pensiero della fine?
Il pensiero della morte mi ha accompagnato fin dall’infanzia, ma non nel senso che flirtavo con la morte, solo che ci pensavo. In tutte le mie opere vi faccio costante riferimento, sia quando rifletto sui limiti del corpo sia quando mi fermo a ragionare su Proust. Naturalmente nessuno si può figurare la morte. Non è che io immagini il paradiso o l’inferno. E’ una questione interstiziale.
Ecco, interstiziale è la parola chiave. Nel suo libro “Pensare e cantare la morte” lei si sofferma sulle parole di poeti e letterati che hanno saputo leggere gli spazi interstiziali, le soglie, gli sconfinamenti.
C’è sempre un modo per guardare attraverso, negli spazi tra le cose. E’ attraverso certe pagine in particolare che si possono aprire altri livelli di coscienza che restituiscono immagini più profonde della nostra esistenza.
Cosa pensa del cinema di Bellocchio?
Non ho ancora visto La bella addormentata, ma penso che sia un autore di grande onestà intellettuale.  Poi magari se dovessi scegliere tra Apocalypse Now  di Coppola e un film di Bellocchio sceglierei Apocalypse Now, però questo non toglie niente alla sua autorialità.
Che libri consiglierebbe, per aiutarci ad affrontare il tabù della morte?
Tutti i grandi libri contengono pagine sulla morte. Penso al Freud di Al di là del principio del piacere. Penso a Proust, quando scrive della morte, di tutto ciò che, dice, «entrava in me». Penso al celebre apologo di Kafka che dice «Via da qui». Penso a Roth, a L’animale morente. Immergersi in queste letture è un modo per avvicinarsi a dire ciò che non vogliamo neanche pensare, all’indicibile, a ciò che non è figurabile.
(Pubblicato sul settimanale "Gli AltrI")

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