mercoledì 22 febbraio 2012

Andy Warhol: oggi abbiamo tutti i nostri quindici minuti di fama. Usi e scarti di una profezia


«In futuro ciascuno avrà 15 minuti di fama». Parola di Andy Warhol. Anno 1968. L’icona della pop art aveva lanciato nell’aria, con gran divertimento, la sua profezia. Uno slogan che avrebbe funzionato dappertutto, che tutti avrebbero cercato nel tempo di metabolizzare a proprio vantaggio. Fino al punto da diventare traccia del tema d’italiano agli esami di Stato nel 2011: prima prova, tipologia D: «Si richiede al candidato di riflettere sul valore effimero (o meno) della fama nella società contemporanea, analizzando in particolare i talent show e i social media (twitter, facebook, youtube)». Sciami di studenti chini su banchi troppi piccoli in corridoi illuminati come carceri, a rovistare dentro le stanze annacquate del proprio narcisismo già precocemente ferito e già abbondantemente innaffiato con i colori altruistici di facebook, ma chiamato a correggersi e piegarsi sotto gli occhi di educatori che, come se dal ’68 non fosse successo niente (ma forse è così, non è successo niente), come se fossero stati tutti il tempo a figurarsi la vita — imbalsamati dentro i ripostigli di aule verdine, si ostinano a giudicare ancor prima di avere le risposte al loro finto domandare. In quell’ “effimero” messo in chiaro senza puntini né parentesi né virgolette, lasciato libero e assolato, e in quel “o meno” messo invece tra parentesi, passano gli spessi detriti della morale dominante. La formulazione della frase contiene in sé il verdetto: aspirare alla notorietà, fosse anche solo per quindici minuti, è cosa effimera, sciocca, volgare; se proprio volete sostenere il contrario, sarete messi tra parentesi, additati come soggetti barbarici.
Il processo di scarnificazione del gioco oracolare di Andy Wahrol si è ripetuto mille volte anche nell’arte, e per la Notte Bianca dell’anno scorso a Firenze, l’artista Katia Giuliani organizzò per la Edison un evento di performing art in cui si invitavano 24 persone comuni ad esibirsi tutta la notte 15 minuti ciascuna: «Se nel 1968 Warhol prediceva 15 minuti di celebrità per ognuno, oggi con i nuovi sistemi di comunicazione abbiamo a disposizione molte possibilità per poter raggiungere questo scopo. Attraverso i social networks, i video sharing, le piattaforme audio, i reality web, la nostra voglia di notorietà e il nostro narcisismo, possono essere ampiamente soddisfatti. Ma è difficile che questa opportunità sia data off line, fuori dal web. Io ho voluto rendere tridimensionale questa opportunità, portarla off line» questo era l’intento di Giuliani.
Ora, qui non si tratta di fare del facile sociologismo né di stabilire una graduatoria degli esperimenti di celebrità simulata più riusciti. Indubbiamente, i tanto vituperati social network hanno metamorfizzato il nostro rapporto con l’Io e le sue figurazioni. Da quando ci alziamo la mattina fino a notte, mandiamo in giro i nostri avatar a cui affidiamo il compito di dire cose vere o false (ma quasi sempre non sappiamo distinguerle), con l’illusione che queste nostre dichiarazioni lanciate nell’aria con incoscienza non ci tornino indietro in termini di responsabilità personale. Non solo abbiamo tutti i giorni i nostri abbondanti 15 minuti di fama, ma se, per esempio, le nostre esternazioni su fb non scatenano subito una valanga di commenti, ci avviliamo come se ci avessero detto che abbiamo fallito il compito d’italiano (finché non cambia l’assetto scolastico/punitivo della società, gli incubi saranno sempre gli stessi).
Difficile aggirare il senso di umiliazione, mentre il diffuso sentimento di incolumità e il meccanismo di delega collettiva (è sempre colpa di qualcun altro, del governo, dello stato, del partito, del sindacato, della chiesa, del padre, della madre) ci permettono di latitare con più agio la capacità di confessare: sì, l’ho scritto io, l’ho fatto io, l’ho pensato io, quello sono io, o quanto meno l’io che meglio mi rappresenta. Perché siamo tutti meno sicuri del fatto che l’Io abiti proprio lì e non in un altro luogo.
L’uso/abuso dei social network ha modificato i confini della soggettività e i meccanismi del consenso. Ma questo è per forza un male? Stiamo occupandoci attraverso le pagine di questo giornale del fenomeno Carmelo Bene, cercando di tenerne in vita la forza eversiva, quell’intuizione profonda che l’Io sia sempre un impaccio e che sarebbe meglio toglierlo di mezzo. Gli attentati che i social network stanno conducendo alle più classiche forme della soggettività potrebbero essere una incarnazione di quel principio di frammentazione e dislocazione dell’Io su cui C.B. aveva costruito il suo teatro. Non uno, ma tanti Io disseminati sul web sono probabilmente una risorsa immaginativa, e non il sintomo di una auto-condanna a morte. Ciascuno cerca (allegramente, disperatamente) lo sguardo e l’approvazione dell’Altro, per definire il peso del suo proprio piccolo successo personale, o di un suo avatar. Questo meccanismo è effimero? Certo che lo è. Ma è proprio dietro il comportamento effimero, coattivo, che si celano le cose più interessanti. E’ vero che dovrebbe essere gli altri a conferire legittimità ai nostri gesti, a fare di noi una persona di successo. Ma chi è una persona di successo? Un vip? Un opinionista che parla in televisione? Un famoso nell’isola? Uno scrittore di cui si vendono migliaia di libri? E quante migliaia? Nella incapacità di accedere direttamente ai posti del potere, la maggior parte di noi si inventa i propri strumenti di autoaffermazione, sperando in uno scatenamento aurorale di avatar: copie di copie di copie di copie tutte differenti e tutte uguali. Ciascuna di questa copie si procura i suoi 15 minuti di fama al giorno. Ma la cosa non finisce qui. Mentre colleziona piccoli successi, proprio nell’istante stesso in cui lo fa, lascia fantastici materiali di scarto, oceani di non detto, zone di verità nascoste che proprio il meccanismo della compulsione narcisistica rivela a chi, come Andy Warhol e affini, se ne frega di giudicare “effimero” il fenomeno, preferendo raccogliere quell’ “altro” e quell’“altrove” che si scatenano con ogni messa in spettacolo di sé.

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