lunedì 6 giugno 2011
“Torniamo a re-incantare la politica": a colloquio con il filosofo Giacomo Marramao
Le ideologie cadono come foglie, una ad una. Cosa fare? Lasciarle cadere con gioia. D’accordo. Ma poi? Bisognerà ricostruire. Da dove? Dalle domande poste correttamente. Si, ma come si arriva alle domande poste correttamente? E quale è il confine tra impegno e diritto al dissenso? E poi. Quanto possiamo fidarci della ragione? Come si arriva a costruire non tanto una comunità ma un “essere in comune”? E’ pura utopia? A cosa bisogna rinunciare per non lasciarsi andare alla pura euforia e cominciare a lavorare? E poi. Quale è il sentimento che ci annuncia che la strada è quella giusta? L’odio? L’amore? No. No. E allora? Che cosa? L’angoscia. Si proprio l’angoscia. Perché per essere in comune bisogna sentire tutto l’orrore. L’orrore di una vita in caduta libera. L’orrore per la vulnerabilità dell’altro, che è anche la mia. La conversazione con il filosofo Giacomo Marramao prende una piega ampia e leggera, come se si suonasse una corda particolare, che entra ed esce dall’individuo seguendo un accordo impervio, di una logica umana, e insieme post-umana. In questo momento in cui l’Italia si prepara a vivere una nuova (e delicata) fase storica, è importante seguire il modo in cui queste domande si inanellano l’una accanto all’altra. Perché è momento in cui il tempo futuro non può assolutamente fare a meno della “passione del presente”.
Professor Marramao, lei si è espresso anche recentemente sulla questione della fine delle ideologie e sulla occasione che la storia ci offre di essere trasversali per uscire definitivamente dalla nicchia del partito (preso). Ha parlato di “fine della guerra civile del Novecento”. Forse vale la pena ricordare il processo che ci ha condotto fino a qui.
La mia prospettiva tiene conto di tutto quello che si è venuto modificando nella percezione del tempo sociale e storico a partire dagli Anni Sessanta. In quegli anni la differenza tra riformisti e radicali era fondata sui metodi adoperati, e non sull’immagine della società futura. Poi è subentrata una fase in cui all’interno della sinistra si è cominciato a parlare del fatto che la forza capitalistica di produzione non aveva alternative, e che poteva essere modificata solo con le riforme. Per quanto riguarda la destra, aveva una sua idea della storia abbastanza delineata. Si scindeva in due modelli: il modello liberale, che diventerà liberista, e il modello di una destra statalista (Msi, An). Quindi una destra che vuole liberarsi dai lacci e lacciuoli della politica da una parte, e dall’altra una destra che ha un’idea dello Stato nel senso patriottico della parola. Le due visioni, di destra e di sinistra, si muovevano all’interno di un’idea pre-determinata della storia. E’ accaduto poi che, nel corso degli anni 70-80 fini ad oggi, è entrata in crisi un’idea di tempo storico. Il mondo si è complicato con la crescita economica. L’attenzione si è venuta spostando sui soggetti individuali. A sinistra si è venuta affermando una teoria del soggetto individuale, e non più solo del soggetto collettivo. Ha fatto irruzione in campo l’idea della differenza, portata avanti anche dal femminismo. Di conseguenza, si è venuta affermando un’attrazione reciproca tra le forme di pensiero della destra e della sinistra. Certi intellettuali di destra come Marco Tarchi, Franco Cardini, Umberto Croppi, Monica Centanni negli anni Ottanta hanno cercato un confronto con noi (con me, con Massimo Cacciari). Noi abbiamo spiegato ai compagni del Pci che quel confronto era importante, ma non volevano capire. Insomma, da quel confronto lì e da questo rimescolamento di ideologie è nato un fenomeno che oggi ha portato alla vittoria di Pisapia.
Non crede se, a differenza di una costante e salutare critica dell’ideologia, il seppellimento definitivo delle ideologie non possa portare un giorno al ritorno di quei dèmoni in una forma anche violenta?
La critica contro i blocchi ideologici del Novecento portava in sé l’idea del disincanto weberiano. Tutto ciò ha fatto da passepartout ad un’idea della politica intesa come pura legittimazione dell’esistente nel migliore dei casi, e nel peggiore come legittimazione di una politica cinica. Ecco, oggi c’è il bisogno di re-incantare la politica, e questo risultato indica che ci stiamo riuscendo. Una politica intesa non più come “reame dell’immaginario” (l’ideologia berlusconiana), ma come orizzonte di senso. Questo significa mettere in conto l’investimento della propria vita per il cambiamento della società, significa farsi carico del “patire” del presente. Io penso che il tempo non sia né lineare (il tempo progressivo della sinistra) né ciclico (i cicli storici della destra), ma a spirale, e che può significare recuperare strati che si ritenevano depositati nel sottosuolo. L’idea, l’utopia, la liberazione del genere umano della necessità: tutto questo non può cadere e può realizzarsi solo se riusciamo a cambiare noi stessi.
Lei parla della “passione del presente”. Ma come si distingue la passione del presente dall’accettazione dell’esistente che ha ingoiato in tutti questi anni molte vite nella coltivazione di quella euforia che è poi cultura di morte, indifferenza? E cosa bisogna fare per esprimere responsabilmente da qui in avanti, al di là di questo straordinario risultato elettorale, la passione del presente?
Lottando per i diritti. Le dirò di più. Siamo entrati nella società dei doveri. Il richiamo ai diritti non può non chiamare in campo i doveri nei confronti della collettività. La sofferenza dell’altro dovrebbe interessare le nostre scelte. Ho scritto in “Passaggio in Occidente” che bisogna rovesciare la teologia politica, verticale. L’agenda politica dovrebbe essere dettata dall’autorità di coloro che soffrono. Se c’è qualcuno che soffre, questa sofferenza non può non rovesciarsi su di noi. La premessa alla felicità negli ultimi anni si è basata su un’ingiunzione al godimento. Ma il godimento continuo è strumento di infelicità. Si instaura un “cattivo infinito” che è pura serialità e quindi infelicità. Le prime vittime di questa ingiunzione al godimento sono gli uomini che stanno al potere: se guardo le loro facce (non solo Berlusconi) non li invidio per niente.
Si può affermare che siamo entrati, antropologicamente, in epoca post-umana?
In un certo senso sì. C’è una soglia antropologica che ci pone al di là dei confini stabiliti dal vecchio umanismo e che ci confronta, per un verso, con il regno animale, e per l’altro con le nuove tecnologie. Il corpo metà animale e metà artificiale è il nuovo orizzonte. La specie umana che ne verrà fuori saprà gestire questa nuova articolazione, noi non siamo ancora pronti.
Perché il potere, come lei afferma, è una forma culturale, a differenza dell’aggressività naturale?
Il potere non è nelle mani del ragazzo che ti aggredisce dentro un bar. Il potere ha a che fare con quel meccanismo simbolico che sta alla base della lingua identitaria, per cui l’altro è il nemico e se io lo elimino affermo me stesso. Serve a lasciare le cose come stanno. Io la penso come Adorno e i suoi allievi (con i quali ho avuto la fortuna di confrontarmi nei miei anni passati a Francoforte): le condizioni materiali della fine dello sfruttamento dell’umanità sono già date. Il potere non ha nessuna ragione economica di mantenere i giovani nella precarietà, ma mantenerli nella precarietà serve a ricattarli. Il primo passo da fare è sottrarre le persone vulnerabili alla condizione di ricattabilità.
Ascoltando i suoi discorsi, mi viene in mente che, a differenza della paura (che può essere fabbricata ad arte al fine di tenere gli individui sotto ricattabilità) o dell’euforia (il reame dell’immaginario), è l’angoscia il sentimento primo che può aiutarci ad abbattere i muri invisibili per portarci a vedere e quindi ad agire.
L’angoscia è un sentimento che si prova di fronte a certi meccanismi di potere. Quindi è un sentimento che può servire a smascherarli. Io sono sempre stato un anti-lavorista, ma la prima battaglia che la sinistra dovrebbe fare oggi in Europa e in Occidente è la battaglia per il lavoro (e non il posto) sicuro. Il diritto al lavoro è un diritto umano - e non sociale - fondamentale. La precarietà di qualsiasi altro essere umano diventa la mia stessa precarietà. E’ questo che bisognerebbe far capire ai liberali.
Ancora oggi si cita sempre solo Pasolini come ultimo esempio di intellettuale militante. Cosa fanno gli uomini di pensiero? Perché non parlano, oppure perché parlano soltanto nelle sedi della loro ufficialità autoreferente?
Lei è convinta di questo?
Abbastanza.
Vede, innanzitutto Pierpaolo aveva quel tipo di influenza perché faceva cinema e andava in televisione. Se fosse stato solo poeta, non avrebbe avuto la stessa popolarità. Per quanto riguarda noi filosofi, invece c’è proprio un momento di grande attenzione. Basti pensare al successo dei festival filosofici ai quali partecipano migliaia di persone. L’ultima volta che sono stato a Modena, c’erano in piazza 2000 persone. Qualche giorno prima, un politico aveva parlato di fronte a 300 persone.
A proposito di filosofi che scendono in campo, Bernard-Henri Lévy ha certamente esagerato e disorientato nel suo recente articolo in difesa di Strauss-Kahn in cui, fondamentalmente, diceva: Strauss- Khann e un mio amico personale, è un uomo molto importante e molto perbene, garantisco per lui. Non è un discorso garantista, è un discorso di lobby, che esclude la possibilità di entrare nel luogo della scena primaria, ovvero dentro la camera d’albergo di un grand’hotel newyorchese dove un uomo di grande potere si è fatto trovare nudo nel suo bagno di fronte ad una domestica di cui (complotto o no) pensava di poter disporre.
Questa cosa è doppiamente terribile. Ed è un monito per noi maschi, a partire da me. Ognuno deve farsi un esame di coscienza sul rapporto sesso e potere. Se questa è la storia di un complotto, il primo a fattore del complotto è stato lui, Strauss-Kahn. Per quando riguarda Bernard-Henry Levy Levy, qui è in atto la difesa di un ceto. Sconcertante.
In questa nostra post-modernità, che tipo di dialogo devono e possono avere il filosofo e il politico?
Il filosofo deve aiutare il politico a porre le domande correttamente. Poi le risposte ognuno se le dà da sé. Se qualcuno chiede al filosofo una risposta, lui deve dire, come Bob Dylan, “The answer in blowin’ in the wind...”.
Se le proponessero oggi un incarico politico, lo accetterebbe?
E chi me lo offre? Alla fine degli anni Ottanta, mi chiesero di fare il dirigente di partito (comunista) in Calabria, e rifiutati. Oggi non me lo chiederebbe nessuno. Non certo nel Pd. Perché bisogna dire che oggi è finita l’epoca di Berlusconi, ma è finito anche il Pd. Bisogna trovare una differente forma mentis, un’altra struttura. Occorre una nuova organizzazione di partito: elastico, ma non leggero, un partito duttile ma capillare.
Il leader di questo partito potrebbe essere Nichi Vendola?
Non lo so. A Nichi voglio un bene dell’anima però secondo ma deve essere meno retore. Non lo sto accusando di populismo, anche perché credo che un minimo di populismo di sinistra non faccia male. Deve evitare la mozione dei sentimenti. La passione che fa vibrare di più gli animi è la passione trattenuta. Quando riascolto i discorsi di Berlinguer, mi commuovo ancora: proprio perché riusciva a trattenere quella forte passione che aveva, riuscendo così a trasmetterla all’altro.
(Pubblicato su "Gli Altri")
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