mercoledì 23 marzo 2011

Liz Taylor non può morire


Certe morti, non sono vere. Nel senso che la nostra coscienza e la nostra memoria faticano a prenderle per vere. In un certo senso, Liz Taylor non è mai esistita, almeno non è esistita per noi che l’abbiamo ammirata e osservata da lontano. E ora che è sparita non proviamo un vero dolore perché, semplicemente, non ci crediamo. La sua bellezza fatata, irreale, non ci è mai sembrata di questo mondo. Liz Taylor coincideva con Hollywood, non solo i suoi personaggi sensuali e capricciosi, ma anche le liti, i divorzi e gli amori fuori scena, ci hanno sempre conciliato con la luce diurna di Mulholland Drive. Liz aveva avuto un’infanzia difficile. L’ha detto tante volte. Ha subito decine di operazioni. E’ stata anche per alcuni mesi paralizzata. Ma tutto questo non ha mai incrinato la perfezione della sua immagine. Un’immagine che viveva su un paradosso: il più bel corpo senza corpo, la bellezza assoluta senza ferita immaginabile. Come se dietro l’azzurro dei suoi occhi non ci fosse una donna vera ma un altro cielo ancora, dipinto su una scenografia che per configurazione è hollywoodiana, colossale, tempestosa.
Al cinema, vogliamo ricordarla con un titolo preciso: “La gatta sul tetto che scotta” del 1958, regia di Richard Brooks, accanto a Paul Newman. Del dramma di Tennessee Williams, Liz Tayloraveva saputo svelare, senza svelarlo mai del tutto, il tormento di un personaggio fedele e sensuale. Riguardando mentalmente quelle scene e mille altre che ci ha regalato nella sua lunga carriera, ci sentiamo presi da incantamento. Aveva un modo tutto suo, Liz, di abitare il proprio corpo. Un modo esplosivo e insieme tenero. Luminoso. Come si fa a staccare gli occhi da lì?
C’era poi la vita. Turbinosa. Plateale. Una vita che sembrava fatta a misura per il suo pubblico, dove la scenografia, ancora una volta, rivelava la turbolenza di un’anima indecifrabile, ma serena. Divorziare e sposare varie volte lo stesso uomo (Richard Burton) è stato forse il gesto più cinematografico che una diva potesse compiere, indisturbata, davanti all’occhio vorace, innamorato, di chi la osservava da anni. Ripetere la stessa scena è dispositivo primario della macchina-cinema. Ripetendo le scene della sua vita, Liz la incarnava alla perfezione.
C’era, infine, una bellezza assoluta (più incompresa rispetto ai suoi numerosi amori) anche nell’amicizia con Michael Jackson, altra grande icona dello spettacolo, anche lui dotato di un corpo senza corpo.
Liz Taylor ha sempre difeso il re del pop martoriato negli ultimi anni della sua vita dalle accuse di pedofilia. Affermava di amarlo come un figlio e di comprenderlo profondamente, perché entrambi avevano avuto un’infanzia di spaventi familiari. Entrambi conoscevano il potere folle delle medicine.
A Neverland, in quel giardino d’infanzia che finirà con l’intrappolarlo a morte, Jackson aveva fatto costruire una sala dove si proiettavano i film della sua grande amica Liz ventiquattro ore su ventiquattro.
Ecco, forse, un ultimo fantasioso frame. Michael e Liz, seduti uno accanto all’altro. Senza tempo. Corpi irreali. Capaci di strane forme d’amore. Fedeli. Innamorati della bellezza. Ridono. Giocano. Michael si specchia nell’azzurro scenografico dell’amica Liz e le canta la canzone che scrisse per lei, “Elisabeth, I love you”. Liz gli giura che non moriranno mai.

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