mercoledì 30 marzo 2011

Del Giappone e altre catastrofi: a colloquio con il filosofo Franco Rella


Ci sono momenti della storia in cui il bianco esprime più del nero. Questo è uno di quei momenti. Le immagini d’apocalisse che dal Giappone si irradiano, bucano il cuore della nostra civiltà e ci svelano l’indicibile. Che parole ha l’indicibile? Di fronte alla catastrofe reagiamo come possiamo. E’ il gran balletto degli esorcismi: dalle tentazioni nichiliste che si aggrappano alla profezie da fine del mondo, fin all’abuso della ragione che dice “è tutto sotto controllo”. Siamo costretti a pensare l’impensabile, e a dirlo. Ma come? Che forma dare alla paura? Come articolare il discorso sul limite? Fare chiasso sulla tragedia della storia non ci salverà la vita. Infestare con milioni di scongiuri il cuore di tenebra dell’Occidente ci lascerà ancora più soli, e in balia. Lo sconcerto è grande. Per cercare di ritrovare un peso alle parole che in questo momento vanno in tutte le direzioni, abbiamo parlato di questi temi con Franco Rella, docente di Estetica presso la Facoltà di Design e Arti - Iuav di Venezia. Fin da Il silenzio e le parole (testo del 1981) all’ultimo densissimo libro, Interstizi (Garzanti, euro 13.50), Rella si è occupato dell’indicibile e delle sue forme. Ci risponde dalla stanza di una clinica dove sta facendo una riabilitazione in seguito ad un intervento cardiaco. Sta bene, ma potrebbe ovviamente sottrarsi. Invece accetta la conversazione, pensando forse che anche un piccolo atto come questo possa dar conto del richiamo alla “responsabilità del pensiero”.

Professor Rella, la catastrofe in Giappone sta segnando un altro punto zero della storia contemporanea. Cosa ci obbliga a pensare?

Questa catastrofe è l’ultima di una serie infinite di catastrofi che hanno segnato il Novecento. Pensiamo a cosa è stata la seconda Guerra Mondiale. Pensiamo a Hiroshima e Nagasaki. Pensiamo ai massacri in Nord Africa. Pensiamo a come l’umanità offesa ha continuato ad essere offesa. La catastrofe in Giappone scuote un dei grandi club dei paesi industrializzati. Per la dimensione delle forze che mette in atto, ci pone, in un certo senso, fronte all’impossibilità di parlarne. Non è a misura del singolo soggetto. Questo rende ancora più oscena la parola dei politici che tentano di ricondurre l’evento terrificante dentro perimetri di eleggibilità personale.

Lei crede che, in momenti come questo, il silenzio possa dire più delle parole?

Le parole sono povere, fanno quello che possono, ma è tutto quello che abbiamo. Bisogna usarle con parsimonia, perché acquistino un peso inusuale. Per questo sono molto importanti le piccole osservazioni. E’ dalle piccole osservazioni che nasce una possibilità di avvicinamento alla verità.

Il Giappone ha già nel suo ventre Hiroshima e Nagasaki. Si svegliano vecchi terrori o ne nascono di nuovi?

Certamente, nel fondo del Giappone c’è la grande ferita di Hiroshima e Nagasaki che è anche la grande ferita della nostra civiltà. Il ritorno di questo “nucleare pacifico” che si ribella e diventa terrificante, non può non saldarsi a quelle immagini. Il conflitto però non è più esogeno, ma endogeno.

“Una yubris immensa ha dominato la filosofia occidentale. Fare della morte un niente...così il mondo è stato scorticato della sua ombra. Tutto è stato invaso dalla luce accecante del pensiero puro”: cito dal suo “Interstizi”. In un certo senso, questi fantasmi con la mascherina bianca in volto riemersi dalle onde e dalla terra rappresentano il grande rimosso della nostra società, e ci costringono a misurarci prepotentemente con l’ombra...

Certamente. Tutta questa gente con le mascherine, migliaia di esseri umani che si affannano, gli uomini dentro gli elicotteri destinati a morire di radiazioni, sono figure che mettono in luce l’ombra, che non è eliminabile dalla nostra vita. Un mondo privato dell’ombra, dell’ansia, della paura, è un mondo letteralmente terrificante.

Non crede che oggi sia molto forte la tentazione del nichilismo?

Penso che ci sia qualcosa di peggio del nichilismo. Il nichilismo nega ma, attraverso questa negazione, coltiva il suo opposto. Quello che mi sembra più allarmante, nella cultura occidentale e non solo occidentale, è l’aggiramento del problema. Le lacerazioni non possono essere dette attraverso concetti, ma attraverso espressioni artistiche. Ecco, se una volta l’arte riusciva a dire le contraddizioni, adesso si limita a scegliere il gioco per il gioco. E non parlo del gioco nichilista alla Duchamp, che attraverso la sua opera rivelava una negazione drammatica. Oggi manca il dramma.


Lei chiama a un’assunzione di “responsabilità del pensiero” a fronte di un’”apatia del pensiero” che avrebbe caratterizzato la recente filosofia. Se la responsabilità non coincide con l’impegno, cosa ha in mente precisamente, quali possibilità, quando si appella alla responsabilità di chi esercita il pensiero e lo scrive?

La responsabilità è un fatto che riguarda la polis. Non significa assumere un impegno a livello partitico, ma tenere in vita costantemente più parti, tutte le tensioni e le contraddizioni che contraddistinguono la complessità delle nostre azioni. Io sarei colpito che qualcuno mi dicesse che la mia opera è disimpegnata. E sarei altrettanto colpito se la mia opera funzionasse per il Pd o per qualsiasi altro partito.

Noi ci troviamo qui a parlare del senso del limite e della presenza della morte in un momento in cui stanno accadendo cose gravissime per l’umanità, ma dovremmo occuparcene sempre. Perché sono spariti il senso del limite e il pensiero della morte dalle nostre vite?

Il pensiero del limite sta nella capacità di stare a cavallo fra due cose - il bene e il male, la vita e la morte, qui e l’altrove – che è poi quello che caratterizza l’umano in quanto tale. Il pensiero della morte, invece, è sempre stato impensabile. Levinas ci ha detto con chiarezza che la morte è impensabile. Più che il pensiero della morte, sparisce oggi il sentimento della morte. Questa presenza incombente e indecifrabile sembra essere stata rimossa, legata a questioni di carattere medico e tecnologico, e sempre meno alla questione del limite terribile dell’umano. Ma senza il sentimento della morte e il senso del limite, è difficile distinguere ciò che è umano da ciò che non lo è.

Dopo l’11 settembre del 2011, forse il gesto semiotico più evidente fu il nero delle Twin Towers usato da Spiegelmann come copertina del “New Yorker”. Quale segno si approssima alla catastrofe dell’11 marzo 2011?

Io mi trovo in una situazione particolare. Le sto parlando dalla stanza di una clinica protetta dal mondo dentro cui mi trovo a fare ogni giorno esercizi di riabilitazione. Ho fatto una cosiddetta “operazione a cuore aperto” e sono stato molto rassicurato. Ma sono in una condizione forzata di isolamento. Ho dei giornali e nulla più. Di fronte alle notizie che arrivano da fuori, si allarga un senso di disperante afasia. L’immagine che io posso avere qui da recluso è l’immagine di un formicolio, come se in Giappne si stesse giocando una partita incomprensibile che costringe gli uomini a muoversi indistintamente Per tutti gli eventi catastrofici di questo XXI Secolo ci sono poche parole, poche immagini. Per il crollo delle Twin Towers nel 2001, per il terremoto in Cile un anno fa, e ora per le centrali nucleari del Giappone, non abbiamo parole importanti. Il linguaggio si è impoverito. E’ come se avessimo perso la capacità di articolare una scala di toni tragici. Questo avviene anche per quel che riguarda la scienza. Non ho letto nessuna grande narrazione sulle modificazioni del corpo umano. In questo momento io ho una valvola animale biologica nel mio cuore. Questo significa che non sono lo stesso di prima, che qualcosa si è modificato per sempre. C’è una generale incapacità di dar conto delle capacità tecnologiche e scientifiche nei loro aspetti molteplici, anche quelli distruttivi.

Barbara Spinelli su “La Repubblica” richiamava al “dovere della paura” citando la “paura euristica” di Hans Jonas. Ma come facciamo noi a distinguere una paura buona, euristica, da una paura cattiva?

Jonas è un personaggio straordinario, che è partito dall’esperienza della Gnosi (che ha sviluppato il concetto dell’uomo abbandonato, solo, sulla terra) per arrivare al principio di responsabilità, che nel suo caso ha significato mettere in discussione anche i fondamenti della propria religione, la religione ebraica. La paura euristica implica la ricerca di una via, di una possibilità di recupero di una dimensione umana. Come facciamo a distinguerla dalla paura che paralizza? Perché non paralizza, appunto, anzi ci dà la possibilità di ritrovare il senso della dignità della vita.

Attraverso una serie di esempi letterari e poetici, lei arriva ad identificare nell’atto della scrittura la più stretta contiguità con l’orrore e con la morte. Bisogna scriverla, e come, questa tragedia?

Gli eventi tragici del Novecento ci hanno messo di fronte all’intestimoniabile. Pollock, Fontana, Rothko, riuscivano ancora a toccare la tragedia. Negli ultimi decenni si è smesso invece di testimoniare l’intestimoniabile, a favore di un puro gioco. Penso alle ultime edizioni della Biennale: solo per fare un esempio, Yoko Ono che ripete dopo 40 anni, senza alcuna necessità estetica ed etica, il gesto dello sganciamento del reggiseno. Perché? Naturalmente ci sono delle sacche di resistenza: la letteratura israeliana (proprio per la condizione da cui nasce), oppure certe pagine di Don de Lillo, capaci di abissi autentici

1 commento:

Unknown ha detto...

Tetsuo
# e così andammo tutti quanti insieme a vedere i funghi atomici in riva alla spiaggia mentre la forza d’urto ci scompigliava i capelli e le radiazioni ci abbronzavano alla grande. Che figo vivere negli anni ’10! E marilù sorridendo cresceva il suo tumore come fosse un bambino mentre a Bengasi aspettavamo Gheddafi per l’ultima battaglia e scrutando il cielo le raccontai la fiaba di chernobil e quella di godzilla le raccontai del mediterraneo e delle sue milleeuna rivoluzioni le ricordai dei tempi della scuola dei primi baci delle sommosse in grecia e le mi chiese notizie dei pescatori somali divenuti pirati e dei loro mari pieni di tesori tossici mi chiese delle petroliere d’assalto in guerra con mare e cielo ed io l’ascoltai rispondersi mentre il sol dell’avvenire si faceva finalmente più vicino solo che era pronto ad esploderci in faccia e per un attimo ricordai mio nonno morire in un campo di concentramento in libia per italiani in fuga verso l’arabia saudita mentre a Bengasi ancora aspettavamo Gheddafi per l’ultima battaglia e marilù sorridendo cresceva il suo tumore come fosse un bambino

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