sabato 5 marzo 2011
“Berlusconi riflette hegelianamente, e italiotamente, lo spirito di questo tempo”: conversazione con Roberta Torre
Sul suo profilo facebook, Roberta Torre ha pubblicato la foto di una stanza d’hotel, il Bates Hotel di Park City, Utah: un divano bianco sotto una grande finestra che intercetta la luce azzurrina delle montagne. Titolo della foto: “La mia stanza”. E’ il suo modo “misterico” per raccontare il passaggio al Sundance Film Festival, dove I baci mai dati (unico film italiano in concorso) è stato accolto con calore, un’ attenzione quasi devota. Mentre siamo seduti nella hall di un altro hotel, a Roma, la cineasta ci mostra diverse foto scattate in quei giorni americani: due cowboys che si baciano seduti al tavolino di un diner, un grande affresco che restituisce lo scontornato disegno di un cavallo, una baita nel ghiaccio dove Robert Redford ha creato una sala di proiezione. Nessuna immagine autocelebrativa. Solo macchie, tracce di un umano intangibile, segni di quelli che Luc Nancy chiama “il vestigium”, “il passaggio di ogni venuta alla presenza”. Con i suoi occhi perennemente accesi, la bellezza bambina, acquatica, Roberta Torre racconta la sua vita dalla fine, come se la dipingesse con grandi pennellate impressionistiche, incantate: l’incontro con il Sud, le passioni, l’amore per la notte, la fede in Dio, il culto per l’inconscio e le sue strane creature.
Roberta, quali sono i baci mai dati?
L’ho capito solo a Park City, al Sundance, rispondendo alla domanda di una giornalista e osservando le reazioni del pubblico in sala durante la scena tra madre e figlia. I baci mai dati sono i baci che non ho dato a mia madre.
Ma a volte quei baci non si possono dare perché è in questione la propria sopravvivenza.
In effetti, allora, non avevo scelta. O la mia vita o la sua. E ho scelto la mia. Però adesso vorrei che lei fosse ancora viva per recuperare il tempo perduto.
E il padre?
Con il padre è stato diverso. Ci ho riflettuto molto, perché pensavo che fosse lì il problema. E invece il rapporto totale è stato quello con mia madre.
Cosa hanno letto gli americani nel suo film?
L’hanno guardato senza pregiudizi. Erano entusiasmati dal tono del racconto. E alla fine della proiezione, mi hanno fatto anche tantissime domande sull’Italia.
Per esempio?
“L’Italia è un paese di sconvolgente bellezza. Come è possibile che vi siete ridotti in questo modo?
E lei cos’ha risposto?
Niente. Sono rimasta a bocca aperta. Cosa si può rispondere?
La storia di una ragazzina che si trova, suo malgrado, a fare dei miracoli, a Librino (Catania). Da quale terra sommersa si è disincagliata questa storia?
Non lo so. Ad un certo punto ho immaginato il racconto di questa ragazzina trascurata dalla famiglia che dice di sapere dove è la testa di una statua della Madonna che era stata perduta. A quel punto tutti cominciano a venerarla e a chiederle di fare dei miracoli.
Cosa chiedono gli abitanti di Librino?
La maggior parte di loro chiede lavoro.
E la ragazzina riesce a trovare il lavoro alle persone?
No, il lavoro non c’è per nessuno. Però alla fine un miracolo si compie. Perché nasce sul terreno di un’amicizia tra due ragazze.
Lei crede al miracolo di certi rapporti umani?
Si. Credo moltissimo all’amicizia, anche se ogni relazione ha una sua durata. In questo senso, io sono molto passionale, mi infiammo, ma poi sono consapevole del fatto che tutto finisce.
Anche gli amori?
Soprattutto gli amori.
Questo lo dice perché di sicuro non è stata abbandonata, e ha invece abbandonato.
Sì, in genere è andata così. Sento quando una cosa finisce, e trovo assurdo, e doloroso, prolungarla artificialmente.
La sua è una storia di iniziazione sentimentale capovolta. In genere, si parte dal Sud per cercare fortuna Nord. Lei invece è andata da Milano a Palermo e ci è rimasta quindici anni. Deve essere stata una folgorazione...
Avevo ventotto anni. Ero stata invitata a partecipare con un mio corto al festival “Palermo Cinema”. Giravo per la città e la guardavo come come Alice nel paese delle meraviglie. Dopo poche ore feci una telefonata a mia madre, era il 24 dicembre del 1990. Le dissi: “Mamma, non torno più, resto qui”.
Dalla sua relazione con Franco Maresco è nato anche un figlio...
Sì, che oggi ha diciotto anni e vive col padre a Palermo. Siamo molto legati, ma io poi ho deciso di venire a vivere a Roma, dove mi sono nel frattempo anche sposata, e divorziata dopo quattro anni.
Cosa rappresenta Roma per lei?
Non è il luogo a cui sento di appartenere. Mi piacerebbe vivere in un posto più piccolo vicino al mare, oppure in una grande metropoli.
Cosa l’attrae invece ancora della Sicilia?
Io sono nata da padre milanese e madre ligure. A Milano soffrivo molto: per il grigiore, per la vita borghese, per le piscine coperte. Io ho un animo zingaro. Ho sempre voluto vivere per strada, e la possibilità di vivere per strada me l’ha data Palermo. Però non credo che ci tornerei a vivere.
Dicono che lei sua una creatura notturna.
Lo sono stata, ma adesso per fortuna il fisico non mi viene più dietro (non è veloce come la mia mente) e mi sforzo di andare a letto non più tardi dell’una.
Quante ore dorme a notte?
Non meno di dieci.
Dieci? Ma sono tantissime!
Per me il sonno è salvifico. Quando c’è qualcosa che non va, mi addormento e mi passa tutto. Non ho mai capito perché, ma è così.
I medici del sonno non hanno ancora scoperto la ragione vera per cui dormiamo. L’ipotesi più accreditata è quella secondo cui il sonno servirebbe a processare la memoria, ad eliminare i materiali di scarto e a tenere i ricordi e le immagini utili....
Mi sembra verosimile. Per me ogni volta è un viaggio, e ne esco con il cervello ripulito. Posso fare a meno di qualunque cosa, ma non delle mie dieci ore di sonno. Io non ho vizi, non mi drogo. Il sonno è la mia droga.
Ricordi i sogni, al mattino?
Si, sempre.
Trae ispirazione dai sogni per i suoi film?
Non esattamente, ma direi che tutti i miei film, da Tano da morire ad Angela fino a I baci mai dati, sono viaggi nell’inconscio.
Però ha firmato anche diversi documentari (La notte in cui è morto Pasolini, I Tiburtinoterzo...).
Il documentario è un genere che in Italia è sottovalutato, invece è uno strumento meraviglioso per avere accesso a certi mondi che altrimenti ti sarebbero negati. Io sono una grande osservatrice, una voyeur direi, e il documentario mi permette di guardare con attenzione i volti e le storie delle persone.
Ha da poco debuttato in teatro la sua regia de “La ciociara” (in questi giorni in scena a Venezia e poi a Milano), con Donatella Finocchiaro. Cosa ha da dirci oggi questo testo?
E’ stata un’idea del Teatro Bellini di Napoli. Ho lavorato sulla riscrittura di Annibale Ruccello, che è molto suggestiva. Per tutta la prima parte, le due donne, madre e figlia, sono delle piccolo-borghesi dedicate a insignificanti traffici di vita quotidiana. E’ un preludio fortissimo dal punto di vista drammatico, perché rende la storia ancora più perturbante. La violenza riaffiora come un fantasma, in una maniera oscura. E’ il ferro rovente dell’impotenza.
Nello spettacolo, ci sono anche riferimenti a Pasolini...
Sì, tutta la chiacchiera tra le due donne sugli oggetti ricorda i discorsi profetici di Pasolini sul soffocamento delle merci. C’è un monologo dentro lo spettacolo che ogni volta si porta l’applauso ed è il monologo di Michele, l’intellettuale, che riecheggia il monologo di Lazzaro dal Vangelo: “Fino a quando non abbandonerete le vostre piccole cose, non vi accorgerete di essere morti”.
Lei crede in Dio?
Si, credo in Dio, nel senso che fon da piccola ho avuto la chiarissima percezione dell’esistenza di Dio.
E prega?
Ho un rapporto quotidiano con la preghiera.
Ha avuto un’educazione cattolica?
Entrambi i miei genitori erano laici. La fede è il frutto di una mia storia tutta personale, e si è manifesta molto precocemente.
Nei suoi film, tratta però con umorismo la religiosità del Sud.
Religiosità e religione sono fenomeni molto differenti. Io credo in una sorta di cristianesimo primitivo, non nella messa in scena di tutti gli orpelli.
Questo suo carattere allegro è un’eredità genitoriale?
Né mia madre né mio padre erano come me. Non lo so come sono venuta fuori.
Continua ad occuparsi ancora di pittura e fotografia?
Si. Il manifesto del film, per esempio, ho fatto io. E’ un collage, uno di quelli che amo fare. Ho sempre avuto un forte senso estetico.
E a quale estetica farebbe riferimento il “Ryby-gate”? “Salò” di Pasolini, la commedia all’italiana, o qualcosa di nuovo che sfugge alle nostre categorie formali?
Dal punto di vista etico, non c’è niente di nuovo. Da sempre i potenti hanno approfittato dei loro poteri, e da sempre le donne (consenzienti o meno) sono state usate come merce di scambio. La cosa nuova è la forma miserabile con cui tutta questa storia delle notti di Arcore si manifesta. Dal punto di vista estetico, è orribile. E’ brutto Berlusconi. E’ brutta la sua casa. Sono brutte le scene che ci vengono raccontate. Anche Luigi XIV aveva le sue cortigiane, ma erano belle, o almeno pensiamo che lo fossero. Il viso di Berlusconi che si sta sfasciando, il corpo che va in pezzi, è qualcosa di orrendo, di insopportabile.
A volte penso che Berlusconi non esista, che sia un fantoccio partorito dai nostri incubi e dalle nostre pulsioni più indicibili.
Berlusconi riflette hegelianamente, e italiotamente, lo spirito di questo tempo. L’Italia si è meritata Berlusconi. E’ il nostro paese che ha reso possibile il berlusconismo. Pensiamo solo alla storia dei rifiuti. Come reagisce la città di Napoli? Sta immobile, ferma. Ma se non si fa una rivoluzione per una cosa così, per cosa si deve fare allora?
Come artista donna, ha dovuto lottare di più degli uomini?
Infinitamente di più. Negli anni, ho subito una censura sottile, subdola, ammantata di apparente benevolenza.
Cosa le rimproveravano?
Il fatto di essere una sperimentatrice, una donna che non va avanti per categorie precostituite. Per fortuna, adesso ho la mia casa di produzione autonoma. Non avrei potuto continuare a dipendere da qualcuno. E comunque è ancora molto difficile. Quando hanno candidato il mio film al Sundance, quasi tutti mi hanno chiesto: e come mai non hanno candidato il film di questo o quest’altro nome dell’establishment cinematografico? Come mai ci sei andata tu?
Ha amici nel mondo del cinema?
I miei amici non sono i miei colleghi di lavoro. Frequento persone che vengono dal mondo del teatro, della moda e dell’arte, donne e uomini divertenti e con indiscusso senso estetico.
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