domenica 20 febbraio 2011
"Io ho paura" conversazione con Armando Punzo sulla vulnerabilità
“Io ho paura”. Armando Punzo non ha paura a dirlo. Proprio alla vigilia di un grande evento che indaga il tema della vulnerabilità: il 23 febbraio all’Hangar Bicocca, il suo Hamlice, saggio sulla fine della civiltà si è mosso come un’onda sismica, con le sue interne, fragorose rivoluzioni di parola e corpo, dentro quell’invenzione spaziale che porta il nome di “Terre vulnerabili, a growing exibition” (quattro mostre in otto mesi di tempo, in quattro fasi come quelle lunari). I detenuti-attori della Compagnia della Fortezza hanno fatto irruzione con i loro costumi translucidi, le loro parole esplosive catapultate dal mondo di Shakespeare e Lewis Carroll (Hamlet più Alice), in uno spazio già abitato da altre strane presenze, comprese le torri di Hanselm Kiefer, “I sette palazzi celesti”, imponenti “trapassatoi” che spingono in una linea verticalità l’idea del “trasporto merci”. In mezzo a queste opere materiche, le vite disossate e reinventate dei carcerati suonavano come un allarme rosso, un punto di sutura. Vulnerabili, certo, e molto di più. In pericolo. Come è in pericolo il lavoro creativo che Armando Punzo ha fatto nel tempo, violando i cancelli di un carcere di massima sicurezza, 23 anni fa, e che oggi rischia di scomparire, come i segni di quella civiltà che si eclissa pezzo per pezzo, nell’assuefazione generale.
Armando, il tema dell’esibizione è la vulnerabilità, che attraversi coscientemente da oltre 20 anni, lavorando con i detenuti di Volterra. Ma è una condizione che riguarda tutti: le persone cosiddette “vulnerabili” (poveri assoluti, poveri relativi, precari, flessibili, abbandonati, emarginati, artisti, ricercatori) sono in Italia circa diciannove milioni....
Si, siamo tutti in pericolo. Per quello che mi riguarda, io sento fortemente la vulnerabilità di questa cosa pensata come inutile, che è l’arte, la cultura in Italia. In un certo senso, la cultura è contro natura, nel senso che combatte il nostro stato animale. Se si abbatte la cultura, c’è un rischio fortissimo di ritorno allo stato barbarico. Abbiamo creduto nell’idea di una cultura diffusa, e non a livello di elite. Ed è proprio quell’idea che è a rischio.
Hamlice porta nel suo ventre allucinatorio, tattile, una potente riflessione sul potere, e al tempo stesso la capacità di frapporre dei corpi reali, dei corpi vivi, tra una visione carceraria del mondo e una possibilità altra di esistenza.
Io credo ancora che quella possibilità altra esista, l’ho sperimentato in tutti questi anni lavorando dentro un carcere. La domanda è: quanto può cambiare la cultura la vita reale delle persone? Ecco, la riposta è: tantissimo. Grazie a “questa cosa inutile”, il carcere di Volterra è adesso un luogo diverso dal passato, molto lontano dall’idea di un luogo dove si punisce qualcuno. Sono cambiati gli agenti. Oggi nessuno di loro pensa che il carcere debba essere un posto di punizione in cui vengono sbattute dentro le persone. Sono cambiati i detenuti. Siamo cambiati noi. Sono cambiati quelli che sono entrati in contatto con loro.
C’è una domanda che voglio fari da tanti anni: come ti senti la sera, quando esci dal carcere e vai a dormire nella tua casa?
Ma io non sono mai più uscito dal carcere. Fisicamente, vado a dormire da un’altra parte, ma potrei anche dormire lì dentro. In un certo senso, dormo dentro il carcere di Volterra da 23 anni. Questo accade quando capisci che stai facendo qualcosa di importante, una ricerca profonda sugli esseri umani.
Per quella che è la tua esperienza, il carcere può essere considerato un moderno sistema di tortura?
Del carcere o non si parla o se ne parla in maniera scandalistica, repulsiva. Ho visto l’altra sera una puntata di “Presa diretta” dove si mettevano a confronto gli orrori di Poggio Reale e l’esempio civile del carcere di Bollate. Il tono della trasmissione era talmente sbagliato, angosciante, che poi capisci perché la gente vuole cambiare canale. Non è così che si deve raccontare il carcere, che resterà sempre il grande rimosso. Si, è un sistema di tortura, ma per farlo capire bisogna lavorare su altre corde, su altre possibilità narrative.
Cosa bisogna evitare?
La rappresentazione esclusivamente documentaristica di certi luoghi. Io avrei potuto fare video, spettacoli, documentari, avrei potuto speculare sulla vita di queste persone, e forse avrei potuto acquistare un po’ più di notorietà. Ma, vedi, Hamlice è Hamlice, e non mette in scena il carcere. E’ un’invenzione, una creazione artistica di cui i detenuti sono i protagonisti, mostra una possibilità di vita diversa. Tutte le volte che entro in carcere, io non vedo i cancelli. Rimuovo idealmente il carcere dalla vita dei detenuti. Questa è la nostra forza, credo. Ladri di biciclette è un film bellissimo ma tutte le volte che lo vedo non posso fare a mano di pensare che è un film che ti fa piangere ma non aiuta a cambiare le cose. Non voglio dipingere la realtà. Per trasformarla, ho bisogno di negarla.
A proposito di sovvertimenti, Hamlice innesta sullo stereotipo del carcere maschile, a dominante virile e guerriera, un segno “transgender”: tacchi alti, vestiti attillati e colorati, accecanti fantasmagorie che escono dal labirinto metamorfico di Alice e dal regno fosco di Amleto. Come sei riuscito a realizzare questa rivoluzione semiotica che passa attraverso i travestimenti dei tuoi attori, tutti uomini (tranne Alice)?
E’ successo questo: ho raccontato la storia di Amleto come un testo-fortezza da cui è impossibile uscire, dove alla fine muoiono tutti (è terribile, l’Amleto). Questa storia, loro l’hanno capita. L’hanno capita perché la conoscono fisicamente, conoscono la storia dell’essere racchiusi dentro un ruolo, impossibilitati a muoversi. Poi ho detto che sarebbe stato bello smontare lo stereotipo del detenuto palestrato, virile, e lavorare sulla fragilità. Anche questo, lo l’hanno capito benissimo. Tutto il lavoro su Hamlice, che è durato due anni, è partito da quattro stivaletti con il tacco comprati via internet. Un giorno ho portato questi stivaletti dentro il carcere di Volterra e i detenuti-attori hanno cominciato a giocarci.
Quale è invece, Armando, il tuo tallone d’Achille, il tuo tratto più vulnerabile?
Avere la consapevolezza che in fondo, tutto quello che ho fatto, è considerato niente.
Quale è stato il momento più difficile in tutti questi anni?
Il momento più difficile è adesso. Ho dovuto affrontare situazioni dure – persone che ti vanno contro, detenuti che tradiscono la tua fiducia, istituzioni che ti cacciano via – ma mai mi sono sentito fragile come in questo momento.
Che cosa rischia la Compagnia della Fortezza?
Di sparire. Se non si va avanti, se il progetto di una compagnia stabile non si realizza, rischiamo di chiudere. Rispetto a tutto questo, io mi sento una responsabilità enorme. I soldi a disposizione per continuare quest’esperienza sono sempre di meno. E mi angoscia sapere che senza di me, dopo di me, potrebbe non esserci niente.
Però Hamlice non ci racconta la fine, ma l’inizio. E noi abbiamo bisogno di credere a questa storia...
Si, Hamlice racconta una storia di trasformazione. La trasformazione è la possibilità di sottrarsi al proprio ruolo definito per sempre. L'origine è nella realtà di questa compagnia che come un doppio sotterraneo offre una riflessione quotidiana su questo tema. E' come se lo spirito dei personaggi di Shakespeare potesse sottrarsi alla propria funzione sociale. Come spiriti pensanti, in perenne trasformazione, attraversano libri di altri autori, allontanandosi da quello che li conteneva come una prigione di ruoli immutabili. Quello che per altri è teatro per noi, per questi spiriti liberi, è vita negata. Cercano altre parole, altre azioni, un'altra possibilità, forse ancora non prevista, nemmeno ancora immaginata. "L'Essere inerme", il non ancora nato, il non ancora definito...
Nel finale, gli spettatori sono invitati a buttare all’aria delle lettere di polistirolo bianco. E’ un momento catartico, liberatorio. Credi sinceramente che le parole possano aiutarci a guarire e a cambiare il mondo in cui viviamo?
Credo di sì. Bisogna immaginare sempre un’altra possibilità, altrimenti siamo morti. Da questo punto di vista, Alice nel paese delle meraviglie è un testo straordinario, che apre strade impensabili.
Cosa ti fa più paura dell’Italia di oggi?
Io ho paura di quest’Italia che fa morire le esperienze e, una volta che sono morte, ne decanta le qualità. Ho paura di questa rassegnazione, dell’assuefazione dominante. Ti abitui a pensare che niente ha valore, che tutto è inutile. Leggevo un bellissimo articolo su “Repubblica” (ma non ricordo l’autore) a proposito dell’uragano Katrina a New Orleans e delle sue conseguenze disumane. Si parlava del fatto che “era saltata quella sottile crosta di civiltà”, di come fosse stato facile. Basta poco, in effetti. Se ti riducono al collasso, se ti mettono nelle condizioni di essere debole fisicamente, come fai a mantenere alta la capacità di riflessione, come fai a difendere la tua umanità? Ci vuole poco per passare dalla civiltà allo stato animale.
C’è qualcosa che alla fine non mi hai detto: la tua personale vulnerabilità.
Non è facile, sai, da dirsi. Non lo so, ci devo pensare. Te lo dico la prossima volta.
(Pubblicato su "Gli Altri")
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