martedì 16 novembre 2010
Elogio della pìetas (da Anna Maria Ortese a Rina Gagliardi)
Eppure c’è un altro “modo”. Come c’è un altro “mondo”, che quel modo evoca e crea. Non è vero che per essere dei bravi giornalisti bisogna essere delle canaglie. Ripenso al sorriso di Rina Gagliardi, a quella sua inclinazione allegra, auto-ironica, infantile a tratti, al suo istinto di accoglienza anche nei confronti di colleghi giovani che non aveva mai visto prima, alla sua stonata, lucente umanità. E rileggo oggi i suoi articoli raccolti in un libro edito da “Gli Altri” (Gli occhiali di Rina) e non trovo una sola parola che sia offensiva, rancorosa, buttata lì con negligenza. Non c’è, nella sua prosa, nessuna traccia del vizio oggi più diffuso: mi riferisco all’arroganza di chi, consapevole di possedere un’arma (la stampa), ogni mattina la spolvera, la lucida e prende la mira, con il solo scopo di raccontare chiassosamente poi a cena con gli amici (anche loro rigorosamente giornalisti “informati dei fatti”) come e quando ha fatto uscire copiosamente il sangue dal corpo del nemico.
Negli articoli di Rina, trovo, al contrario, un innamoramento per la vita e le sue strane figure, dipinte con generosità e rigore documentario, e in una cifra tutta sua, insubordinata e felice: capace, proprio in virtù di questa felicità con cui si avvicinava all’altro, di nominare e toccare l’infelicità, il punto di caduta, la malinconia, la perdita, e lo strazio di chi non ha mai avuto niente. Questo perché Rina “pedinava” il personaggio, non lo lasciava mai in pace, fino a che non arrivava a soffiargli quella vita che non poteva che dare in restituzione altra vita. C’era una pacatezza febbrile, una grazia piena di fervore politico, nel suo modo di raccontare, e non dipendeva dal soggetto. Maria Callas, la guerra, la politica italiana, i suoi loschi figuri, la società, i vecchi, le donne, gli uomini violenti, gli uomini buoni: ogni volta la sua scrittura logica e pensosa (a rileggere quelle pagine sembra di sentire il flusso del pensiero, la sua voce interiore), andava a cogliere il punto di verità, la scintilla di tenebra.
Queste sono cose che restano. E che fanno la differenza tra un grande giornalista e un giornalista che tira a campare (e, tirando a campare, ferisce).
Naturalmente, Rina Gagliardi conosceva bene il gioco della politica. Se doveva dire una cosa la diceva (peraltro aveva quasi sempre ragione). Ma lo faceva senza fretta, con una misura esemplare, millimetrica. Andando a comporre le parole su un tessuto delicato, come fosse un corpo vivo la pagina, il corpo di una persona viva che anche se non può dire niente è capace di sentire se le stai facendo male, se sei in cattiva fede, se sei ignorante e tronfio quando scrivi.
Sarà per quel suo mago di cui ci ha svelato l’esistenza, in uno dei suoi articoli più belli (“Dentro di me? C’è un mago che mi accompagna da quasi cinquant’anni e forse da altrettanti mi protegge. In verità l’ho visto distintamente una sola volta: mi pare bellissimo, circondato com’era da nuvole azzurrine”), sarà perché quel mago le ha dettato quando era bambina “tre spropositate utopie” (abolire la povertà, cancellare per sempre le guerre, arrivare sulla luna), sarà perché non ha avuto paura di guardarsi dentro e di stanare anche le cose brutte, le cose che mai vorremmo essere e invece siamo, sarà perché ha saputo leggere i fenomeni della vita come degli incantamenti, ma la sua lezione è l’esatto contrario del killeraggio.
Esiste una parola per dire tutto questo, ed è pìetas. E’ quel giornalismo carico di passione e di turbata autobiografia, che in Italia ha trovato nei reportage di Anna Maria Ortese la sua incarnazione più folgorante. Scritti tra il ‘39 e il ‘64, quei racconti di viaggio (commissionati da varie testate e raccolti ne La lente scura, Adelphi) sono ancora oggi un modello non superato di lucida empatia, di smisurata passione per la vita colta nei suoi assolati trasalimenti.
Non solo i paesaggi, ma anche le persone subivano nella inesorabile fabbrica della scrittura di Maria Ortese un processo di stupefacente metamorfosi. Ed ecco che un “impiegatino francese, pallido, con le orecchie ancora più pallide, a punta, piantate orizzontalmente ai lati del viso”, diventava “il diavolo”, mentre appariva come “un angelo antico” “il fiorentino che credeva ai sindacati cattolici, alla possibilità di una sinistra cattolica, e aveva stampato un libro di cui era subito stata vietata la ristampa”.
Questo modo di raccontare non solo è magnifico, ma è realistico. Nel senso che, realisticamente, è così che la mente, messa nelle migliori condizioni di lavoro, funziona. E’ così che vede e che sente l’altro da sé.
Queste scritture giornalistiche non sono esercizi di metafisica, ma affilati colpi d’ascia piantati nella carne del mondo. E’ in questo modo che il mondo si disvela. Per immedesimazione. Per trasfigurazione, e commozione. Per furore letterario.
A coloro che si esprimono attraverso sentenze obitoriali (e in Italia sono tanti), contenti di aver azionato ogni giorno la ghigliottina o di aver piantato una lapide con il nome e il cognome del nemico (dopo averne mostrato orgogliosamente la testa), vorremmo regalare questi due libri: La lente scura e Gli occhiali di Rina. E costringerli a leggerli non una, ma cento volte. Così, per pura legge del contrappasso. Per vedere la faccia che faranno quando scopriranno (perché alla fine lo scopriranno) che “nel vivere umano, mentre i decenni e i mezzi secoli rotolano via sempre più in fretta, con un effetto di turbine e di rovina”, si può arrivare a vedere (così come Anna Maria Ortese la vedeva), “una macchia” “una macchia nella natura dell’uomo anche buono, e forse una macchia nel sole stesso” e che dopo tanto dolore, tante sconfitte e lacerazioni, non ci resta che “vivere ardendo/ e non sentire il male” (Gaspara Stampa citata da Rina Gagliardi).
(Pubblicato su "Gli Altri")
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