giovedì 30 settembre 2010

Milano, la vita agra


La vita agra. E’ un’immagine icastica, perfetta, che si infila sul corpo anatomico di Milano come una veste trasparente. Si intitolava così il romanzo di Luciano Bianciardi (1962) che due anni più tardi Carlo Lizzani distese e concentrò nei 100 minuti di un film splendido, protagonista Ugo Tognazzi. “Un uomo cade per terra e nessuno lo raccoglie. Il tuo prossimo ti cerca soltanto se, e fino a quando, hai qualcosa da pagare” dice l’intellettuale venuto a riempire di tritolo il Pirellone, il grattacielo di poteri immarcescibili che finirà invece per divorare lui.
Dopo più di quarant’anni, dopo il boom economico, dopo le stragi, dopo la Milano da bere, dopo Tangentopoli, dopo l’inizio mesto di un millennio che a piazza Duomo si incanagliva ancora testardamente nel lusso, Milano resta quello che Bianciardi genialmente intuì agli anni Sessanta: il regno della vita agra.
Chi ci ha abitato negli ultimi anni (come è accaduto a chi scrive), ha sfiorato questo stato nebbioso dell’esistenza, dentro il quale - non visti, silenziosi, opachi - si consumano crimini senza sangue di cui da fuori si percepisce soltanto il lato euforico, la pazzia collettiva che ai consigli d’amministrazione o alle riunioni di redazione in cui si decide in pochi attimi “questo si e questo no questo dentro e questo fuori” si allinea la follia di aperitivi sempre più estenuanti, durante i quali si ricarica quell’energia che serve l’indomani a comandare meglio e a subìre meglio (con la sola speranza che il sottoposto potrà un giorno diventare a sua volta capo).
Nel film di Lizzani, Tognazzi è un anarchico venuto dalla provincia con un compito rivoluzionario: per vendicare i quaratatrè minatori morti senza notizia nel suo paese, avrebbe dovuto far saltare in aria lo storico grattacielo di Milano. Il Pirellone finirà in effetti per esplodere, ma di fuochi d’artificio, di luci plateali che lo stesso protagonista escogiterà come invenzione pubblicitaria, una volta che la sua creatività è stata assorbita interamente, inesorabilmente, dalla macchina produttiva/persuasiva.
La strada che porta un apocalittico a diventare un integrato, cioè quello che a Milano tutti vogliono diventare (e in gran parte tutti sono), è fatta di ambizione, ricatto economico, lusinghe, prevaricazioni sottili, genialità creative ma soprattutto di una patina di apatica “signorilità” dietro cui viene costudito il combustibile necessario al crimine perfetto.
Non è un caso che molti anni più tardi, nello scrivere Trilogia della città di M (la prima edizione è del 2004), Pietro Colaprico abbia caricato le atmosfere noir, seguendo la tradizione di Scerbanenco, il suo romanzo su Milano. In un luogo in cui “non si respira, non si vede e non si ascolta, dove tutto è possibile e niente lo è davvero a parte il businesss” (del testo di Colaprico esiste una versione teatrale a firma di Serena Sinigaglia, protagonista Arianna Scommegna), il vero rebus che l’ispettore di polizia Francesco Bagni è chiamato a sciogliere è chiuso nella città stessa, nella confezione regalo, nella plastica luccicante, nel glamour di un gigantesco happy hour che poi happy non è.
In questi quarantasei anni che ci separano dal film di Lizzani, il dispositivo dell’integrazione si è raffinato alla perfezione. E’ diventato prassi quotidiana, ripetizione automatica di gesti, sempre meno euforici, sempre più insonorizzati, spenti.
Il Pirellone è ancora lì, enigmatico, con la sua sagoma lieve, affusolata. La “fiaba verticale” disegnata da Ponti ha appena compiuto 50 anni, ed è entrato nel catalogo dei monumenti vincolati.
Nel 2002 un pazzo lanciò contro il grattacielo il suo aereo da turismo: oltre a Luigi Fasulo, morirono due avvocatesse che ci lavoravano dentro, Anna Maria Repetti e Alessandra Santanocito. Un mese fa un gruppo di manifestanti ha scelto proprio l’ombra del Pirellone per protestare contro la privatizzazione dell’acqua, ma in quel caso non se ne è accorto nessuno. Troppo intenti tutti a vendere l’anima al diavolo per pochi soldi.
Mentre del lavorio delle menti che a Milano si danno ogni giorno appuntamento nei luoghi in cui si decide di moda, editoria e finanza, per le strade non c’è traccia, nessuna eco. Non sono previsti sprechi, né regali (l’idea deve essere fondamentalmente funzionale, commestibile, e soprattutto non va narrata in giro).
Per le vie di Milano, solo un terribile vuoto. Un’assenza di vita. Come se qualcuno ci avesse buttato la bomba atomica, a Milano, come se gli esseri umani fossero tutti morti o si fossero rintanati nelle case, negli studi di produzione, post-produzione e post-post produzione, nelle gallerie, nei locali, nelle sale dell’Expo ad esibire le proprie maschere di fitness. Come se la città, nella sua bellezza senza costo, fosse stata evacuata, abbandonata.
Nella infanticabile serie di riunioni, focus groups, conference calls, openings, cene di casta rigorosamente senza bambini (che elemento eversivo i bambini: che restino a casa con la badante ucraina!), si consuma ogni giorno la cerimonia dei vincitori.
A Milano, oggi si arriva già convinti di voler diventare quello che si diventerà. Lo si chiama “principio di realtà”. Va a braccetto con quello che è rimasto del “principio di piacere”. Della felicità rimane solo un suffisso inglese piantato imbelle tra una tartina di salmone e un bicchiere di prosecco.
Mentre, ora come allora, “gli altri,” quelli che non possono comprare, stanno a guardare, sognando i sogni di chi ce l’ha fatta.
“Camini per Milann: me par de vèss un sciur!/ Ti, te sé no: i gh'e tanto otomobil/ de tucc i culùr, de tucc i grandesc'/ lìè pien de lüs, che el par d'ess a Natal,/ e süra, il ciel pien de bigliett de milla.../Che bel ch'el ga de vèss/ èss sciuri, cunt la radio/ noeuva e, nell'armadio/ la torta per i fieu/ che vegn'in cà de scola.../e tocca dargli i vizi:/"...per ti, un'altra vestina!/ A ti, te cumpri i scarp!..." canta Enzo Jannacci in una scena dolente e vitale de La vita agra.
“Cosa vuol dire?” chiede Giovanna Ralli a Tognazzi.
“Niente...sono i sogni che fa un operaio di periferia quando va al centro di Milano”.
(Pubblicato su "Gli Altri")

3 commenti:

Unknown ha detto...

Ma non è pirellone !! È torre Galfa !!!! E daiiii

Unknown ha detto...

Ma non è pirellone !! È torre Galfa !!!! E daiiii

ziccuso ha detto...

Bell'articolo ma condivido il precedente commento :) no gio ponti ma melchiorre bega. Forse perché l'autrice vive a rom hehe