venerdì 9 luglio 2010

La scomparsa del destino: riflessioni intorno alla morte di Taricone


Tra le cose più belle che siano mai state fatte dall’uomo sul destino dell’uomo, c’è un film francese di foto bianche e nere: si intitola La Jetée, l’ha creato Chris Marker nel 1962, dura 27 minuti, e si può scaricare anche da You Tube.
Tutte le volte che la morte arriva a toccarmi in qualche modo – da molto lontano o da molto vicino – ho l’abitudine di rivederlo. Per catarsi, per consolazione, ma anche perché è come se quella breve folgorante opera racchiudesse un segreto.
Ogni volta c’è una foto, o una frase, che salta in primo piano e si deposita sul letto di un fiume dove ci sono tutte le altre cose sublimi e terribili che parlano dell’uomo e del fato. Anche questa volta che è morto un ragazzo di trentacinque anni in quel modo lì, buttandosi da un paracadute, sono andata a rivedere il film di Chris Marker. E’ una prassi solitaria, ed ha a che fare con il bisogno di interrogare il futuro, e naturalmente anche il passato.
In fondo Edipo aveva fatto la stessa cosa, ma un’unica inesorabile volta, nel momento in cui aveva voluto sapere. “Ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre” fu il responso della Pizia. Convinto che i suoi genitori fossero Polibo e Peribea (che invece l’avevano soltanto allevato), Edipo lasciò Corinto. Sulla strada verso Tebe, uccise il suo vero padre, Laio. A Tebe sposò sua madre, Giocasta.
Se questa storia ancora continua a terrorizzarci e commuoverci è perché ci identifichiamo con Edipo, un uomo senza colpa che prende alla lettera parole che vogliono dire altro.
Ecco, a me La Jetée fa lo stesso effetto della Pizia. Come Edipo, non riesco a capire il senso secondo, ma solo il primo, del suo messaggio.
Il romanzo fotografico di Marker parte con la sequenza di un bambino che viene portato dai suoi genitori in visita all’aeroporto di Orly. C’è una luce ultraterrena e insieme molto terrena. Forse perché è il vento a muovere le cose. Il bambino osserva il volto di una donna e il corpo di un uomo che cade. E’ un’immagine che lo accompagnerà per sempre, un enigma da sciogliere. Poi questo bambino diventa adulto. Scoppia la terza Guerra Mondiale. Parigi è ridotta ad una tomba. Della vita non c’è più traccia e i vincitori usano i prigionieri per fare degli sperimenti. L’uomo di cui Chris Marker racconta la storia è un prigioniero che interessa molto ai suoi aguzzini, proprio perché ha un ricordo ossessivo: quando era piccolo aveva osservato un uomo cadere sul molo di Orly e una donna guardare stravolta. Solo alla fine del film capiremo, assieme al protagonista, che in quel lontano frammento del tempo il bambino aveva visto la propria stessa morte.
In questi giorni, abbiamo sentito dire che Pietro Taricone ha voluto sfidare il destino. Assieme a sua moglie Kasia Smutniak, si lanciava da anni dal paracadute. Era la cosa che amava fare di più, quella che lo rendeva felice.
Era un ragazzo turbolento, segnato dal vento, Pietro. Uno che scalpitava e diceva speso no. No a Maurizio Costanzo. No al sex symbol. No al falò delle vanità. Per questo si era ritirato con moglie e figlia in un luogo dove poteva andare a cavallo e volare in cielo. Per tornare poi sulla terra.
E’ possibile che in uno di quei lanci dal paracadute abbia immaginato, o sentito, che un giorno sarebbe morto così. Ci sono nella vita di tutti noi dei frammenti di intermittenza onirica, in cui ci pare di capire come e quando ce ne andremo.. Poi passiamo il resto della vita, l‘intera vita, a lavorarci contro.
Non è, questa, la storia dell’Homo Faber di Max Frisch? Ossessionato dalla razionalità e dalla sanità, Faber, che fa il tecnico per l‘Unesco e ha in odio i sogni, è destinato ad avere un rapporto incestuoso con la propria figlia e a vederla morire.
Qualche giorno fa, all’Università di Friburgo, un consesso di medici, filosofi e teologici, discuteva dell’“Eliminazione del destino dalla vita contemporanea”. “Oggi esiste l’idea che con l’avvento della modernità, si sia dato l’addio non solo all’antichità ma anche al destino – scriveva nella sua relazione il prof. Giovanni Maio, promotore dell’iniziativa e direttore a Friburgo dell’Istituto di Etica e Storia della Medicina – Il fato ci appare cosa antiquata, fuori dal tempo, e proprio questo è il problema. Pianificazione, controllo e sicurezza sono espressione di un’epoca che vive principalmente di tecnica e di economia”.
Nel tragico antico (Edipo re), l’eroe è innocente e il suo errore consiste nell’aver male interpretato le parole di un oracolo. Nel tragico contemporaneo (Homo Faber), l’uomo è colpevole di aver preteso di controllare tutto con la ragione, espellendo il destino dalla propria vita.
Quando si dice di Pietro Taricone che ha voluto sfidare il destino, si compie un rito di esorcismo collettivo. Il ragionamento è semplice: dal momento che siamo gli unici responsabili della nostra vita, la malattia diventa un peccato (perché non siamo stati bravi a prevenirla), e la fine della vita è una colpa individuale. Questo ci libera dal pensiero indicibile della nostra morte.
Torniamo a La Jetée. In un senso primo, il suo messaggio è diretto, e poetico: ciascuno di noi, in un momento di visione (profetica), in uno degli spazi mercuriali d’esistenza, può sapere cose che non avrebbe mai voluto sapere. Questo non ci dovrebbe scoraggiare dal “sentire” (arrivando a dire che è meglio non sapere), ma al contrario ci dovrebbe portare ad accettare che l’”essere per la morte” di cui parlavano gli esistenzialisti decide del senso della nostra vita.
Rivedo La Jetée e mi fermo, stavolta, su altri dettagli. I vincitori della guerra vogliono studiare la mente di quell’uomo perché possiede un’immagine enigmatica che gli lavora dentro, sì, un’ossessione, il cui senso soggettivo verrà rivelato alla fine. Ma c’è dell’altro. In una Parigi desertificata dove sono tutti morti per l’effetto della radioattività, si vuole cercare di recuperare la vita attraverso la “forma del tempo”. Lo dimensione dello spazio è definitivamente cancellata. Ma forse c’è ancora una speranza: “Un corridoio nel tempo e forse si sarebbe potuto arrivare al cibo, ai medicinali, alle fonti di energia”. Come si può far rivivere il tempo? Attraverso la mente di colui che ricorda il passato e vede il futuro, e proprio per questo può aiutare il presente. Ecco allora le immagini della donna del molo (il bambino aveva conosciuto lì il suo futuro amore), il suo sorriso mentre si addormenta al sole, l’espressione euforica quando insieme visitano il museo degli animali, il suo volto ancora che dorme, e l’occhio che all’improvviso si apre, come scosso da un sentore. Il cuore del film è nelle fotografie che ritraggono la donna amata. La felicità - provvisoria, parziale, quindi drammatica - è la vera forma del tempo: “Poiché l’umanità era sopravvissuta, non poteva rifiutare al proprio passato i mezzi per la sua sopravvivenza. Questo sofisma fu accettato come un mascheramento del Destino” (La Jetée).
Sfogliando gli album pubblicati dai giornali, non possiamo non rimanere colpiti dal modo in cui Pietro Taricone ha scolpito, a modo suo, la vita.
Lanciato dieci anni fa dal primo “Grande Fratello”, poteva diventare un simulacro non più soltanto dell’Homo Faber ma dell’Uomo Fabbricato da qualcun altro. Lui invece che cosa ha fatto?: “Mi sono trasferito fuori Roma, in campagna, proprio per stare vicino alle cose che mi fanno bene: il bosco, i cavalli...Lavoro giusto per mantenere me e la mia famiglia, scelgo progetti in cui credere. La vita non può finire nel lavoro che fai. Tanto più se è un lavoro che contribuisce a quel maledetto chiacchiericcio inutile che ci sta rincoglionendo in massa” (da un’intervista pubblicata su “Vanity Fair”).
Non sappiamo se ‘o Guerriero abbia anticipato, in quei passaggi intermittenti di luce interstiziale, la propria stessa caduta. E’ probabile che sia successo. Come ci piace immaginare che durante l’ultimo volo abbia rivisto qualcosa di simile a quello che il protagonista de La Jetée ha visto viaggiando nel tempo: il volto degli esseri umani che abbiamo amato, le cose che abbiamo fatto insieme.
Forse questo è il senso secondo che ci arriva dal film: dalla desertificazione dei sentimenti ci salva la “forma del tempo” con cui modelliamo la nostra esistenza. In questo senso, la morte fa parte del disegno, ed è folle lavorare contro il destino, camminando lungo la strada indicata dall’“uomo che fabbrica” o, peggio, da chi è “prefabbricato”. Pietro, per esempio, non l’ha fatto.

(Pubblicato sul settimanale "Gli Altri" del 9 luglio 2009)

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