domenica 9 maggio 2010
Ida Dominijanni, la "cattiva" ragazza del manifesto
E’ una donna minuta, elegante, apparentemente distaccata. I suoi occhi si aprono gradualmente, una volta che hanno pescato al fondo le parole. Anche il volto si schiude solo alla fine, dopo un lungo silenzioso match tra se stessa, l’interlocutore e lo spazio intorno. A rifletterci bene, è giusto che sia così. Perché due estranee dovrebbero fare simpatiche chiacchiere senza importanza? Per Ida Dominijanni tutto ha importanza, anche una semplice ìntervista. Giornalista storica del “manifesto”, opinionista politica, figura guida del femminismo, questa signora delicata e ferma non è una che fa “conversazione”. Con lei anche un’ora di dialogo può assumere il valore di un’esperienza. Convinta della capacità d’azione delle parola (come la sua “maestra” Hannah Arendt), Ida ama instaurare un regime particolare del discorso, dove l’acqua scorre spessa e lenta, e il suono esce pulito. Questo significa “pensare”. Nel suo caso, ha significato, di conseguenza, produrre continuamente idee, scriverle, comunicarle. Però una fase sembra esaurita: “Questo mestiere è malato”. Brutto bruttissimo sintomo, che ha a che fare con il corpo ammalato, solo apparentemente florido, di questa nostra società dello spettacolo, che negli ultimi anni ha mangiato tutto, informazione compresa.
Ammalato di che?
Ha vinto la formula “più cinico è meglio è, più in superficie sta più vende”. Allora, o si ha il coraggio di farlo rinascere, oppure morirà in un bla bla insensato.
Quando ha cominciato a lavorare al “manifesto”?
Ho cominciato a collaborare alla fine degli anni Settanta, ma sono entrata nel 1982, poco dopo essermi trasferita a Roma.
Lei è nata a Catanzaro ma ha studiato filosofia a Firenze. Ed è lì che ha anche incontrato il pensiero femminista…
Sì, negli anni Settanta. L’Università di Firenze era un laboratorio molto segnato dalla cultura del Pci, e altrettanto dalla contestazione della nuova sinistra al Pci. Il femminismo è cominciato all’interno di un collettivo che si chiamava “Rosa” e faceva un’omonima rivista, un grande esperimento di pensiero collettivo di cui mi sono rimaste amicizie fondamentali: Maria Luisa Boccia, Tamar Pitch. Attraverso il femminismo, negli anni ho anche ritrovato e rielaborato la mia formazione filosofica. Con “Diotima” ho lavorato molto sul pensiero della differenza, poi ho ripreso una collaborazione con l’Università, prima con Mario Tronti a Siena, poi con Giacomo Marramao a Roma 3, dove ho insegnato filosofia sociale. Molto della mia formazione lo devo però anche alla psicoanalisi.
Suo padre, Bruno Dominijanni, era una figura di spicco del Partito Socialista Italiano. Che clima si respirava in famiglia? Cosa le arriva dalla linea paterna e cosa dalla linea materna?
Da mio padre mi arriva tutto: l’amore per la politica e l’amore per la libertà. Veniva dalla sinistra socialista, aveva attraversato quella divisione di campo tra Pci e Psi che passava per la questione della libertà. La sua morte, nel 2004, mi ha profondamente destabilizzato. Devo anche molto a mia madre e alla sua famiglia – i Giglio, un bellissimo cognome! - : anche lì i valori della libertà e della cultura erano molto marcati.
Un suo articolo pubblicato alla fine su “Alternative per il Socialismo” (dicembre 2009), iniziava in questo modo: “Il ventennio berlusconiano sta finendo per implosione interna, senza che ciò che chiamiamo, sinistra, abbia battuto o si decida a battere un solo colpo”…Nel frattempo ci sono state le elezioni regionali che hanno confermato Berlusconi. A sinistra, si profila invece un nuovo scenario politico trasversale attorno alla figura di Vendola. La formula “Pd più satelliti radicali” potrebbe essere destinata a cadere.
Confermo quello che ho scritto in quell’articolo: il berlusconismo e Berlusconi hanno cominciato a declinare dopo il 25 aprile dell’anno scorso, con l’esplosione di quello che correntemente si chiama sex-gate e che secondo me non è un sex-gate ma la messa a nudo di un sistema di potere basato sullo scambio sesso-potere-denaro. Un declino non necessariamente e immediatamente misurabile in voti, anche se di voti, fra europee e regionali, Berlusconi ne ha persi molti. Ha retto solo per il sistema di alleanze e per il tracollo della sinistra. E a tutto ciò non è estraneo il quadro internazionale, in particolare la presenza di un uomo come Barack Obama, che è anche una figura del maschile così diversa da quella di Berlusconi. Per quanto riguarda invece lo scenario che si apre a sinistra, mi pare che sia in atto una destabilizzazione del bipolarismo che ridisegnerà il campo politico complessivo. Quello che potrà succedere a sinistra è molto legato a quello che succederà al centro, e quello che succederà al centro è legato a quello che farà Fini. Sono convinta che torneremo a votare prima della scadenza della legislatura, ma non è chiaro con quali formazioni si andrà al voto.
Che sentimenti le suscita una figura come Vendola?
Di Vendola penso molto bene, perché “incarna” un cambiamento, non lo predica solo a parole. E’portatore di una contaminazione culturale inedita. E- dato per me tutt’altro che secondario – di una interpretazione della mascolinità opposta a quella del “vero uomo” che Berlusconi ha scagliato contro le trasformazioni imposte dal femminismo. Detto questo, penso che Nichi dovrebbe evitare di ripartire dalla costruzione recintata di una sinistra radicale, e parlare a una platea più larga. Detta in altri termini, è da evitare la strada del minoritarismo.
All’interno della riflessione sul sistema di scambio tra sesso denaro e potere, lei nomina “quei brandelli di periferia frustata” che possono aiutarci a comprendere meglio il presente e le nuove conflittualità sociali: “C’è una relazione tra nuove forme di mercificazione e sedimenti di libertà”. Possiamo approfondire meglio i termini di questa relazione?
Mi sembrava che dal sex-gate berlusconinano, come dal caso Marrazzo, fosse emersa una tipologia sociale estranea alla rappresentazione dominante e sconosciuta alle nostre analisi. Una periferia che forza i confini del centro...
Ma non sono certo le periferie pasoliniane…
No, non sono le periferie pasoliniane. Sono stupefatta da questo tirar fuori sempre Pasolini. Bisogna rifare, nelle condizioni di oggi, le operazioni di lettura che lui faceva negli anni Settanta. E parliamo di due condizioni completamente diverse.
Di quali periferie parliamo allora?
Le figure che sono venute fuori da questo scenario sessuale “trash” abitano una zona di confine tra oppressione e libertà, o per dirla con Foucault fra assoggettamento e soggettivazione. Sono bordi che premono sul confine illuminato della politica, che si muovono fuori dal perimetro della rappresentazione “mainstream”. Noi non soffriamo solo di una crisi di rappresentanza, ma di una crisi di rappresentazione del mondo.
Nel 2001 pubblicava un testo dal titolo “Motivi della libertà”. Se oggi, dopo dieci anni, si trovasse ad aggiornare quel libro, cosa scriverebbe della “libertà”?
Sono molto affezionata a quel libro e devo dire che lo riscriverei uguale. Era un testo molto profetico, grazie anche alle eccellenti firme che conteneva. Aggiungerei solo un seguito di discorso su come il rovesciamento della libertà - che analizzavamo allora prevalentemente su scala italiana - si sia aggravato dopo l’11 settembre su scala occidentale. Lo slittamento della libertà dal campo della sinistra al campo della destra si è consolidato dopo il crollo delle Twin Towers.
Ho letto sul sito del manifesto i materiali del dibattito sulla direzione. Giornale e politica, quale rapporto?
Citando Carla Lonzi, dico che un giornale “è già politica”. Per fare politica, non deve essere necessariamente legato a un pezzo di sinistra…facendo comunicazione, si fa politica. E’ per questo che sono stata così tanti anni al “manifesto”: perché nella sua stessa forma, nella sua stessa scommessa, mi consentiva di fare politica. Naturalmente, anche nel campo del rapporto fra comunicazione e politica siamo nel pieno di un rovesciamento dagli anni Settanta a oggi. L’affernazione che la comunicazione possa essere politica nel frattempo è andata al potere con Berlusconi... Ma quello del manifesto resta un esperimento straordinario. Quattro anni fa, con Marco Bascetta e Stefania Giorgi ho curato un grosso fascicolo sui trentacinque anni del giornale…Ho risfogliato 35 anni di storia e sono rimasta colpita dal numero delle firme, più di cinquantamila, che sono passate da questa testata: persone che hanno creduto nella capacità della comunicazione e della parola in un progetto politico collettivo…questo è un patrimonio enorme che andrebbe conservato. Oggi invece prevale una rincorsa alla visibilità, e quando si dice visibilità si dice televisione….Io penso che il compito di una intelligenza critica sia di lavorare molto sull’invisibile, per renderlo visibile, certo, ma anche per capirlo, per interpretarlo….Il lavoro di una buona informazione non si giochi tutto su una visibilità accecante, si gioca sul bordo tra visibile e invisibile.
A proposito di interpretazione del tempo presente, una sua figura di riferimento è Hannah Arendt, che parlava della “difficoltà di comprendere” il presente e del compito non facile di nominarlo e interpretarlo. E’ una lezione definitivamente tramontata, inadatta ai tempi, oppure vede barlumi di quel pensiero politico in azione in alcune figure e in alcune zone politiche del presente? Ed è concepibile oggi prendersi il lusso del tempo, del pensiero che non diventa subito sintesi, immagine, slogan, visibilità come la chiama lei?
Gilles Deleuze parlava del regime di visibilità come il risultato dei giochi di luce e di ombra di un’epoca. E tutta la grande tradizione critica, a partire da Marx, ci ha allenato a vedere lo spessore di opacità che c’è dietro la visibilità della forma merce. Hannah Arendt è stata una grande maestra non solo per il contenuto del suo pensiero, ma anche per il modo in cui lei concepiva il pensare. Pensare il presente comporta una continua messa a rischio di sé.
Per quanto riguarda noi, siamo abituati a frequentare una sinistra che si sente orfana dei grandi intellettuali di riferimento. E’ sbagliato. Non ci sono più quegli intellettuali “organici” che ricevevano la linea dall’alto e la restituivano in termini culturali... Ma che non ci siano è solo un bene. Come ogni epoca di grande crisi, questa è un’epoca di grande pensiero: sulla globalizzazione, sul soggetto, sulla libertà…Non manchiamo di intellettuali, ma di di politici capaci di fare tesoro di questa enorme produzione di idee.
Si dice che lei abbia un carattere difficile…
Beh, c’è una vasta letteratura sulla storia del lavoro femminile che dimostra che l’argomento del cattivo carattere è stato sempre usato contro le donne. Io sorrido molto di questo. Non so cosa sia un carattere facile…Comunque chiunque sa che talvolta certe asprezze caratteriali sono anche sintomi di fragilità, e io rivendico le mie fragilità.
Leggendo i suoi scritti, ho la sensazione che in lei passi una certa consapevolezza della sua femminilità, che lei si senta a casa nel suo corpo.
Mi fa piacere darle questa sensazione, arrivarci è stato frutto di un lungo percorso…. La scissione fra corpo e linguaggio fa parte della tradizione occidentale. Per molte donne è una scissione sofferente, la maggior parte degli uomini la risolve con una rotondità del linguaggio che non corrisponde a un’esperienza emotiva e quindi mente…Mettere in rapporto corpo e linguaggio significa accedere non dico alla verità ma almeno alla propria, piccola verità.
E’ possibile individuare sintomi di una scrittura femminile differenti da una scrittura di segno maschile?
Ci sono dei sintomi di un pensiero staccato dalla realtà anche del soggetto che lo esprime e che è un pensiero ben truccato di logica, di consequenzialità: lo chiamo “maschile” perché storicamente esprime la forma di razionalità del sesso dominante, ma questo non significa che non ci siano molte donne che aderiscano a questo modo d’essere, né che vi aderiscano tutti gli uomini. Storicamente, noi siamo state considerate come corpo un oggetto e come pensiero un non soggetto…emergere come soggetto pensante ha significato anche combattere questa scissione, ritrovare il corpo come corpo non alienato nel desiderio dell’altro. Io penso che il femminismo non sia altro che una presa di parola a partire da sé, e in quel partire da sé c’è in primo luogo un certo “sentire il corpo”.
(pubblicato su "Gli Altri" del 7 maggio 2010)
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