sabato 7 novembre 2009

Caro Saviano, la società dello spettacolo ti sta uccidendo


Lo dico subito: io amo profondamente Gomorra ed ho un rispetto incondizionato per il suo autore. Ripenso spesso a quel ragazzo di ventisei che di notte prende il treno, attraversa l’Italia e arriva a Casarsa. Sta cercando il “suo” posto nel mondo, e pensa di trovarlo nel cimitero in cui è sepolto l’uomo che ancora oggi resta il più vivo tra i tanti morenti (gli annoiati, gli indifferenti, i vigliacchi) che sono rimasti in vita: “Andai sulla tomba di Pasolini non per un omaggio, neanche per una celebrazione…Mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse possibile ancora riflettere senza vergogna sulla possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se era ancora possibile fare i nomi, a uno a uno, indicare i visi, spogliare i corpi dei reati e renderli elementi dell’architettura dell’autorità. Se era ancora possibile inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l’affermazione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura”.
Roberto Saviano ha fatto quello che nessuno aveva fatto prima di lui in Italia: ha messo “tutta” la sua giovinezza - la passione, l’intelligenza, l’audacia, il talento, la ricerca - al servizio di un racconto epico, un reportage letterario dove tutto quello che si dice è drammaticamente vero, un’opera pulsante, architettonica, scritta superbamente, che ha cambiato il nostro immaginario, rivelando le alleanze mostruose tra crimine, politica e finanza, penetrando con nomi e cognomi nei meandri della psiche di un sistema mafioso.
Questo lo scrittore. Poi c’è l’uomo. Quest’uomo che ha appena compiuto trent’anni è stato privato della libertà: non può avere una vita privata, gli è vietato di fare una passeggiata, le uniche persone con cui gli è consentito mangiare sono le sue guardie del corpo.
Qualche mese fa, mentre tutti noi trascorrevamo in santa pace le vacanze estive, Saviano scriveva dal suo bunker un articolo che ancora conservo e ogni tanto rileggo. Era l’11 agosto e lo scrittore campano scelse il “Times” per dire la verità sulla sua condizione umana. “Se questo è un uomo”, si sarebbe potuto titolare quel pezzo, e invece i redattori del quotidiano inglese preferirono un titolo più spettacolare: “Roberto Saviano, on the run from Mafia”, “Roberto Saviano, in fuga dalla mafia”. Lo stesso fecero i giornali italiani, che scelsero di isolare i passi più cinematografici, e naturalmente più innocui, della confessione di Saviano: il tono della denuncia, il gesto di chi volta le spalle ad un libro che in Italia ha venduto più di due milioni di copie e dice: “Mi sono pentito come uomo, non come scrittore. Ma quando passo davanti a una libreria e vedo Gomorra in vetrina, mi volto da un’altra parte”.
Ci sono però altri dettagli di quella confessione che dovrebbero colpirci. E’ difficile, per esempio, non sentire il freddo, lo squallore delle case in cui è stato scaricato, la nostalgia con cui evoca la sua stanza di ragazzo con i poster alle pareti, o il cibo che gli preparava una donna sconosciuta nei giorni del suo esilio a Napoli, e poi, improvvisamente, solo due uova in un ambiente anonimo, ogni volta diverso, le guardie del corpo come unici esseri viventi con cui scambiare una parola, e poi…poi niente mare niente neve niente luce.
Con un atto d’orgoglio che solo noi meridionali possiamo riconoscere e comprendere in tutta la sua irriducibile asprezza, Saviano afferma in quello scritto di non aver paura della morte: “Ho avuto tante paure nella mia vita ma la paura della morte non mi ha mai riguardato. Mi capita di pensare al dolore del morire, ma i miei terrori sono altri…Il terrore più grande di tutti…è il pensiero che loro (la camorra) possano fare in modo di diffamarmi, di distruggere la mia credibilità, di oscurare il mio nome e tutto quello per cui io ho vissuto e di cui sto pagando il prezzo”.
L’onore è più forte del sopravvivere. Ma la vita, invece, cos’è la vita? Quale forma può prendere la vita per un ragazzo che ha passato gli ultimi tre in camere angoscianti, attorniato solo da calzini, boxer, magliette e pantaloni, una giacca, e due borse, una contenente medicine, uno spazzolino, il dentifricio, un carica-batterie per il cellulare, e l’altra con dentro il computer e pochi libri?
In queste condizioni, è naturale scambiare la vita per “qualche apparizione pubblica”: “Le pubbliche apparizioni fuori dall’Italia costituiscono l’unica alternativa alle mie quattro mura….Si va direttamente dalla luce al buio. Niente nel mezzo”.
Il discorso si potrebbe chiudere qui. Ma c’è una sfumatura che luccica tra le maglie di questa tormentata confessione…come il movimento inconcluso di un pensiero che si ha fretta a chiudere (e umanissimo), una giustificazione che dietro l’apparenza di un’auto-giustificazione, lascia passare l’accettazione, e alla fine il consenso, al proprio stesso sacrificio umano.
Saviano parla della differenza tra luce ed ombra, e vede nelle apparizioni pubbliche fuori dall’Italia l’unico barlume di vita. In effetti c’è una bella differenza tra la prigione e la strada. Il fatto è che le apparizioni pubbliche di Saviano sono sempre meno fuori dall’Italia, sempre meno “per strada”, intendendo per strada la strada del mondo, e sempre più strette dentro le scatole dei media italiani. Recentemente, lo scrittore è stato addirittura l’unico attore protagonista di uno spettacolo di successo, La bellezza e l’inferno, regia di Serena Sinigaglia, al Piccolo Teatro di Milano. Questo gli scatena contro una specie di invidia collettiva, un fenomeno odioso che, giustamente, provoca in lui una reazione indignata e ancora una volta orgogliosa: “Sono sempre stato fiero di essere antipatico a chi mal sopporta che vada in televisione o sulle copertine dei giornali, perché ho l’ambizione di credere che le mie parole possano cambiare le cose se arrivano a molti”.
L’invidia sociale di cui è vittima Saviano si commenta e si estingue da sola. Che bruci nel suo veleno, come la calunnia, sua fedele compagna.
Dal canto suo, Saviano è sicuramente in buona fede quando afferma che bisogna parlare, far sapere, esserci. Si è mai rifiutato Pasolini di scrivere sul “Corriere della Sera” o di intervenire nei programmi di quella televisione pubblica di cui poi leggeva tutto il potenziale distruttivo, lesivo della civiltà e della lingua attraverso cui questa stessa civiltà si esprime?
L’epoca in cui operava e scriveva Pier Paolo Pasolini è molto diversa dalla nostra, e lo stesso stesso Pasolini ebbe intuizioni folgoranti sul futuro. Ma il suo modo di morire, quella morte violenta - come la vita dei ragazzi di borgata che tanto lo affascinava – lo àncora inestricabilmente agli anni di piombo, alle fotografie delle strade tappezzate di cadaveri.
Anche oggi scorre per strada del sangue vero, e Saviano riempie di sangue vero le sue pagine. Il sangue delle vittime della camorra. Lo scrittore campano infatti non si pente di aver scritto Gomorra. L’uomo invece sì. Perché? Perché la camorra l’ha minacciato di morte e costretto ad una vita blindata, infelice, una vita senza fame e senza sonno.
Se deve rappresentarsi una morte atroce, Saviano parla dell’attacco che i camorristi possono fare alla sua credibilità. Sempre nell’articolo scritto per il “Times”, cita Anna Politkovskaya: “Non dimenticherò mai le parole che l’ex marito disse all’indomani della sua morte: “Il fatto che l’abbiano uccisa è preferibile alla diffamazione. Anna non l’avrebbe mai potuto sopportare”.
Ma il modo in cui si manda a morire nella Russia di Putin è meno sofisticato del modo in cui si può mandare a morire in Italia o in altri paesi diciamo più occidentalizzati. In Italia oggi si muore di mille morti diverse, e nessuna di queste è una morte bella. Non esiste la morte bella, ma solo la morte-spettacolo.
La morte senza sangue non è, peraltro, meno atroce di quella violenta. Anche se è in atto un meccanismo mistificatorio così raffinato da farla passare addirittura per opera buona.
Alla base, l’unica legge che funziona è sempre quella del capitale. “Lo spettacolo – scriveva Debord – è il capitale ad un tale grado di accumulazione che diviene immagine”.
Privato del corpo, Saviano è costretto a mandare nel mondo la propria immagine, anche quando ci si illude che sia il suo corpo vero quello che transita sul palcoscenico del Piccolo Teatro o negli studi televisivi di qualche trasmissione più pluralista e “democratica” delle altre.
Con le migliori intenzioni del mondo, Saviano accetta di leggere i suoi testi al Piccolo Teatro (il monologo verrà replicato dal 16 al 28 febbraio). Con le stesse migliori intenzioni, il Piccolo Teatro gli offre l’opportunità di farlo. Con le migliori intenzioni, direttori di giornali e di programmi d’attualità lo invitano a dire la sua. Il pubblico in sala è contento è applaude, a casa pure è contento e forse pensa che in fondo quel ragazzo non se la passa così male, se appare in tv.
Nel frattempo, sul volto di Saviano, sempre più scarnificato, sempre più incapace di sorriso, si poggia una sottile maschera di morte. Impossibile non vederla “al lavoro”, quella maschera. E’ come se qualcuno stesse uccidendo un vivo, il più vivo tra di noi. E questo qualcuno è un soggetto plurale, capace di offendere e attaccare da tutte le parti.
Quello che si sta commettendo davanti ai nostri occhi imbelli e imbambolati è
un crimine sociale dove la vittima è sempre e solo Saviano, offerto come digestivo all’esercito della cultura perché si redima e si assolga da solo dalla propria mostruosa inedia.
Uno di quei crimini senza criminali veri e senza sparatorie, orchestrati dalla stessa società dello spettacolo che dai tempi di Baudrillard e Debord si è sempre più evoluta e quindi perfezionata nella capacità di commettere omicidi bianchi.
Cosa dovrebbe fare allora Saviano? Rifiutarsi di andare in tv? Dire no al teatro? Non accettare le prime pagine dei giornali?
Non credo che lo sdegnoso rifiuto di apparire sia una soluzione ai mali di questo mondo, e ha ragione Saviano a dire che la verità deve raggiungere il maggior numero di persone. Il problema non è nel “cosa” ma nel “come” tutto ciò si manifesta, nella forma e nel ritmo che assorbe e divora la cosa.
Saviano non è un uomo libero. E non noi dobbiamo mai dimenticarlo. La sua non-libertà ci riguarda profondamente. Ma quello che per lui assume il valore di una pura sopravvivenza, a noi che a quello spettacolo tragico siamo costretti ad assistere con un certo terrore, appare come un sacrificio a cui la cricca dei benpensanti lo chiama ciclicamente, per poter esclamare di fronte ad un bicchiere di prosecco e ad una tartina al salmone (cibo che Saviano anche potendo - non è certo questione di soldi - non può permettersi, perché non ha più fame né voglia): “Ho sentito parlare Saviano, incredibile, ti rendi conto di quello che succede in Italia? Che brutte cose! Mamma mia!”, nel mezzo di una conversazione in cui di sicuro, ad un certo punto, ci finiscono dentro anche i nuovi schiavi: “Che dice la tua badante? Ah, queste ucraine, sono le peggio”. Buon appetito.
Nessuno chiederà agli spettatori di Saviano di agire, perché la loro buona azione quotidiana l’hanno già compiuta. Benedetti e assolti, potranno andare a letto tranquilli, tanto chi va a controllare se si comportano da padri-padroni dentro le loro case? Basta che leggano “Repubblica” tutti i giorni e che almeno una volta a settimana vedano spettacoli di impegno civile. Buonanotte e amen.
Ora, se non è un crimine sociale, un atto violentemente ipocrita questo, cos’è allora?
Di fronte a tutto ciò, Saviano ha il diritto e il potere di imporre le proprie condizioni, per trasformare un fatto di brutale consumo culturale in un “rito” culturale. Potrebbe, per esempio, presentarsi in tv con le sue guardie del corpo e fare scena muta tutti insieme, facendo parlare solo i loro corpi, le loro vite di ragazzi impauriti, soli. Oppure potrebbe chiedere al pubblico del teatro di non sciogliere l’emozione nell’esorcismo dell’applauso. Potrebbe chiedere e ottenere ad ogni sua apparizione pubblica un black out dell’ovvio, fare qualcosa che si ricordi, che metta in corto-circuito il meccanismo oliato e innocuo della messa in scena della denuncia. Impedire con un gesto risoluto, folle, che lo trattino, codardamente, da eroe. Cosa ce ne facciamo di un eroe in più? (non lo diceva già Brecht: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”?). Chiedere e ottenere quello che Pasolini auspicava quarant’anni fa nel suo Manifesto per un nuovo teatro: “Una signora che frequenta i teatri cittadini, e non manca mai alle principali "prime" di Strehler, di Visconti o di Zeffirelli, è vivamente consigliata a non presentarsi alle rappresentazioni del nuovo teatro. O, se con la sua simbolica, patetica, pelliccia di visone, si presenterà, troverà all'ingresso un cartello su cui c'è scritto che le signore con la pelliccia di visone sono tenute a pagare il biglietto trenta volte più del suo costo normale (che sarà bassissimo). In tale cartello, al contrario, ci sarà scritto che i fascisti (purché inferiori ai venticinque anni) avranno l'ingresso gratuito. E, inoltre, vi si leggerà una preghiera: di non applaudire: i fischi e le disapprovazioni saranno naturalmente ammessi, ma, al posto degli eventuali applausi sarà richiesta da parte dello spettatore quella fiducia quasi mistica nella democrazia che consente un dialogo, totalmente disinteressato e idealistico, sui problemi posti o dibattuti (a canone sospeso!) dal testo”.
Saviano non va applaudito. Saviano va salvato. E ancora oggi invece si discute se è il caso di togliergli o no la scorta! Tutti noi dovremmo salire sul palco accanto a lui e alle guardie del corpo, e urlare: “Sparate!”.
Perché la sua singola vita vale molto di più del medicamento che ogni sua apparizione pubblica offre alla nostra anima infetta. E quella vita va protetta, non consumata e digerita.
Non mi piace assistere allo scempio del suo corpo, a quel suo volto giovane che si ammala e si allontana ogni giorno di più. Perché c’è una bella differenza tra il vivere e il morire. E’ lui che me l’ha insegnato. Me l’ha insegnato quel giorno che fece il suo discorso più bello, all’indomani del suo ritorno a Casal di Principe, quando dovette sfidare la rabbia e lo sprezzo dei mafiosi e degli amici dei mafiosi: “Quand’ero ragazzo, prima di fare a pugni, prima di sentire le nocche sulle gengive e prima che ci si rotolasse per terra…ci si sfidava a parole. Ecco, mi ricordo che prima di fronteggiarti, le frasi di rito erano degne di uno scontro tra cavalieri.Le ricordo ancora: “Io vengo da dove si imparano due cose, a sputare in faccia alla morte e alla paura. Sappi che per me vita e morte sono la stessa cosa”. E sento solo oggi quello che avrei voluto dire, viso a viso, a molti di quei ragazzi: che io ho imparato a risparmiare la saliva, che vita e morte non sono la stessa cosa e che fino al termine di questa notte proseguirò questo viaggio. Non datevi pace”.
Anche noi desideriamo fortemente, ossessivamente, che Roberto Saviano prosegua il viaggio che ha appena iniziato e arrivi alla fine, non solo di questa, ma di molte altre notti a venire.

Pubblicato su "L'Altro" (il quotidiano di Piero Sansonetti) il 7 novembre

venerdì 6 novembre 2009

Quanto è banale dire che il potere è sadomaso

Jan Fabre porta in Italia (al Romaeuropa Festival) il suo ultimo spettacolo, Orgy of Tolerance, ed è un successo annunciato. Pubblico in delirio, applausi a scena aperta, molte risate. Ma nessun brivido: nessun brivido di conoscenza, nessun brivido di terrore. Eppure la materia che il regista belga sta trattando è gigantesca. Teoricamente, è l’unica possibile materia su cui gli artisti contemporanei dovrebbero incollare visioni e corpi: dal mattino fino alla sera, e poi di nuovo il giorno dopo, perché non c’è tempo da perdere. Aderente al suo tempo, Fabre fabbrica un musical seducente che intitola L’orgia della tolleranza: col fine di dire ovviamente il contrario, ovvero il caos dell’intolleranza che diventa violenza e abuso. Lo spettacolo inizia con una scena di masturbazione collettiva dove le vittime sono costrette ad un orgasmo reiterato da carnefici/cacciatori che piantano dei fucili contro le loro teste. E’ un quadro che non si conclude mai veramente, e che torna in diversi punti dello show, in maniera ossessiva. Un’altra scena simbolica vede tre donne incinte issate su carrelli della spesa: alla fine di una lunga sequenza in cui mimano realisticamente e con grandi urla il parto, fanno nascere dalle loro pance lattine di birra, confezioni di biscotti, un salamino e la pasta De Cecco. Dopo di che una coppia di wasp fa un viaggio in Italia e in un crescendo di intolleranza verso l’italiano-marocchino-nero che ritarda a servirli, si dipingono di vernice bianca e indossano l’abito del Ku Klux Klan. Oggi che un facebook gira un nuovo appello del KKK alla razza ariana, dovremmo fare un salto sulla sedia. Invece nessuna di queste immagini riesce a colpirci nel profondo. Non è certo una questione di stile. La bravura dei ballerini /performer, la loro energia stratosferica, sono fatti indiscutibili. La musica è perfetta, il contenuto più contemporaneo che non si può. Sul finale, c’è anche un monologo ormai consolidato del fuck off dove si manda a ‘fanculo tutti, compreso Jan Fabre, a dimostrazione che l’ironia e l’intelligenza sono il pane quotidiano della compagnia belga. Le citazioni si rincorrono in un montaggio vorticoso, da Kubrik al Portiere di notte di Liliana Cavani fino al La 25a ora di Spike Lee. Eppure nessuna emozione, ma solo un coatto divertimento, un piacere estetico di cui alla fine ci si vergogna anche un po’. Perché? Una delle ragioni sta sicuramente nel fatto che lo spettacolo è troppo uniforme e chiassoso, non si distende mai, non lascia nessuna zona scoperta (e quindi aperta), e nella sua sovra-esposizione di corpi, lingue e peni di plastica, rischia di creare un effetto auto-combustivo, inerte. Ad un certo punto della conversazione nel salotto dei vincenti, si nomina l’estetizzazione del mondo operata dal nazismo e dai regimi totalitari, ma lo si fa in modo estetizzante, isomorfo quindi ai mondi che il regista belga assalta e che non può che criticare. Ma è una denuncia tutta di testa, dichiarata, che si liquefà in uno zoo antropomorfo che invece di terrorizzarci per i temi affrontati ci mette di buonumore, ci tranquillizza e ci esalta.
C’è poi una questione di fondo, più sottile. La rappresentazione sado-masochista del potere ha fatto la sua storia. Non ne possiamo veramente più. Il potere non si esprime così, non urla, non ghigna, e spesso non si fa neanche sentire. L’immaginario che c’è al lavoro dietro questo spettacolo è, alla fine, povero, remissivo, e senza volerlo, complice. Viene in mente, per contrasto, l’ultimo film di Pasolini ,Salò e le 120 giornate di Sodoma: non esiste fino ad ora rappresentazione più terrorizzante del potere. Per la luce, per i suoni, i silenzi, per la ferocia interiore delle pratiche di umiliazione e sevizia, per il rigore di una visione creatrice capace di farsi archetipo, fondendo gli scritti del marchese De Sade con la morte dell’umano. Non si è mai più vista una cosa del genere.
Senza dover necessariamente arrivare a quella sintesi feroce, stordente, una visione che ammala e irretisce, gli artisti avrebbero comunque il compito di non fermarsi alle rappresentazioni esteriori, di non prendere per buona “la prima”. Nominare la paura e il delitto, descrivere un salottino in cui degli uomini cattivi conversano sulle loro collezioni di uomini buoni - arabi, ebrei e africani -, è ben poca cosa rispetto all’orrore della realtà che mentre perdiamo il nostro tempo, ci divora e ci mastica con i suoi simulacri e le sue tentazioni luttuose. E fare della morale in forma di musical è molto diverso dal fare un’arte morale.
Visto al Teatro Olimpico, Orgy of Tolerance arriva l’8 novembre a Torino (Fonderie Limone, Moncalieri), per iniziare una tournèe europea che toccherà Siviglia, Mosca, Amsterdam, Monaco e Bruxelles.

Pubblicato su "L'Altro" il 6 novembre

domenica 1 novembre 2009

Ionesco oggi, l'assurdo senza stupore


Dici Ionesco e dici “teatro dell’assurdo”. Anche Beckett e Pinter (che pure era molto più giovane) rientravano nella categoria. Li aveva accostati il critico Martin Esslin, che pubblicò nel 1961 il celebre saggio “The Theatre of the Absurd” e pochi anni dopo “The Absurd Drama” (1965), in cui legiferava: “Il teatro dell’assurdo attacca le consolatorie certezze dell’ortodossia religiosa e politica. Il suo scopo è quello di scioccare il pubblico, costringendolo a guardare in faccia la durezza della condizione umana…E’ una sfida accettare la condizione umana così com’è, in tutto il suo mistero e in tutta la sua assurdità, sopportarla con dignità, nobiltà e responsabilità: perché non c’è nessuna soluzione facile ai misteri dell’esistenza…Alla fine ogni uomo si trova solo in un mondo senza significato…Rispetto a tutto ciò, il teatro dell’assurdo non provoca lacrime di disperazione ma una risata liberatoria”.
Un po’ esistenzialista un po’ boulevardienne, il teatro dell’assurdo entrava nella scena degli anni Cinquanta e Sessanta con la potenza di un uragano, senza usare le buone maniere, scatenando ad ogni sua nuova performance un delirio di “favorevoli” e “contrari” che per giorni e mesi non si davano pace. Essenzialmente, era una drammaturgia capace di intercettare gli smottamenti della società e del linguaggio: i suoi autori rischiavano ogni volta la reputazione e la perdita totale del consenso.
Nel centenario della nascita di Ionesco, ci chiediamo cosa sopravvive oggi di quel teatro. Beckett e Pinter continuano ad essere universalmente rappresentati, anche se è mia personale convinzione che Pinter non reggerà al corso del tempo mentre Beckett sì. Per una semplice ragione. Le opere del drammaturgo inglese, premio Nobel per la letteratura (scomparso nel marzo scorso) sono in una qualche forma consustanziali ai mondi che denuncia, fino a confondere talvolta il linguaggio con l’oggetto di critica politica. Difficile trovare una bella messa in scena delle opere pinteriane, perché se non c’è una regia sofisticata al lavoro, quei testi risultano, senza volerlo, drammaticamente borghesi, e alla fine innocui. Con un’unica eccezione, ma non è teatrale: la sceneggiatura de Il servo di Losey, fantastica, potente, misteriosa.
Beckett invece sopravviverà all’umanità estinta. Perché le sue opere non sono fatte neanche di parole ma di pietre, di rocce, di elementi non corruttibili, correlativi oggettivi della poesia. Anche una cattiva messa in scena di Beckett, non potrà mai rovinare la potenza di fuoco, aria, acqua e terra contenuta nei suoi versi. L’umano vi transita quasi per sbaglio.
Ionesco, infine. Le sue opere non vengono quasi più rappresentate, né in Italia né all’estero. Eppure il teatro dell’assurdo coincide con Ionesco, e non con Beckett, né con Pinter, che poi hanno trovato strade più autonome.
Quindi è morto del teatro dell’assurdo. Come ci spiega Renato Nicolini in queste pagine, è morto perché si è spostato dal palcoscenico alla politica.
Ma è morto anche perché i registi si sono ostinati a “rappresentarlo”, senza comprendere che il teatro dell’assurdo è, in fondo, una modalità, una forma attraverso cui leggere il mondo e disossarlo.
A differenza di Pinter, autore dichiaratamente politico, Ionesco paga inoltre la mancanza di un’ideologia. Alcuni critici gli furono ostili fino alla morte proprio perché vedevano in lui un reazionario, un mistificatore, un giocoliere. E soprattutto un anti-brechtiano.
In effetti, al contrario di Pinter, che credeva nella trasformazione e nel progresso, Ionesco era fondamentalmente un nichilista: “Sono sempre stato ossessionato dalla morte. Dall’età di quattro anni, quando ho saputo che si deve morire, l’angoscia non mi ha più lasciato. E’ come se avessi capito improvvisamente che non c’era nulla da fare per sfuggirla e che non c’era nulla da fare nella vita”. Non sembrano queste le parole di un giocoliere.
Quando Ionesco scriveva La cantatrice calva, Le sedie o Il rinoceronte, non voleva “rappresentare” alcunché, ma indagare quella che chiamava “la tragedia del linguaggio”. Ed è affascinante ripercorrere il metodo di lavoro del drammaturgo francese. Ionesco non si metteva a sedere di fronte al foglio bianco sentendosi superiore ai personaggi che andava rappresentando, al contrario raccontava l’assurdo perché ne era ammaliato: “La stranezza è ovunque: nel linguaggio, nel fatto di prendere un bicchiere, di berlo con un sorso solo, in breve è nel fatto d’esistere, d’essere”.
La cantatrice calva, la sua opera indubbiamente più bella, nacque dalla lettura di un manuale d’inglese. Ionesco aveva appena cominciato a studiare la lingua e si era imbattuto in uno di quei libri surreali dove figurine improbabili fanno dichiarazioni così sballate da lasciare di stucco. Per memorizzare quelle frasi, lo scrittore aveva preso l’abitudine di copiarle su un quaderno. Imparò che Mr Smith e Mrs Smith avevano due amici, Mr e Mrs Martin: quando si incontravano tutt’e quattro all’ora del the dicevano cose come :”La campagna è più grande della grande città”, “Sì, ma nella città la popolazione è più densa”. E’ così che Ionesco ebbe una folgorazione e decise di costruire la sua pièce facendo parlare i coniugi Smith come i personaggi di un manuale di conversazione. La commedia (anzi l’anti-commedia, come la chiamava l’autore), inizia in questo modo: “Già le nove. Abbiamo mangiato minestra, pesce, patate al lardo, insalata inglese. I ragazzi hanno bevuto acqua inglese. Abbiamo mangiato bene questa sera. La ragione è che abitiamo nei dintorni di Londra e che il nostro nome è Smith”.
Era il 1950. Nasceva un testo che sarebbe entrato nella storia del teatro. Nel metterlo in scena, il regista Nicolas Bataille (che allora aveva solo 23 anni), ebbe un’idea geniale: occultando il fatto che si trattava di un’opera surreale, chiese allo scenografo Jacques Noel di disegnare le scene per una versione di Hedda Gabler. Allo stesso modo, diede agli attori l’indicazione di recitare i personaggi come se si trattasse di Ibsen. Lo spettacolo debuttò al Théatre des Noctambules di Parigi l’11 maggio del 1950 ed ebbe un’accoglienza spenta; bisognerà aspettare l’edizione del ’57 perché Ionesco e la sua opera ricevessero la giusta consacrazione.
Il fatto che oggi La cantarice calva, piuttosto che Le sedie, siano considerate materia morta non dovrebbe inquietare nessuno. Se un testo non risuona più nel contemporaneo, c’è sempre una ragione profonda. Quello che dovrebbe preoccuparci, piuttosto, è la mancanza generale di fantasia da parte dei nostri autori, registi e critici.
Ionesco era uno sperimentatore ossessionato dalle incongruenze e dai lapsus della lingua. Sapeva frequentare l’assurdo perché guardava alla fine della vita amando profondamente le bizzarrie di questa vita: “Ciò che dicevano i personaggi della Cantatrice calva non mi sembrava banale, ma straordinario e strabiliante al più alto grado” dichiarerà molti anni dopo.
Proprio perché capace di stupore, riusciva a sorprendere i suoi contemporanei. Ma oggi chi è in grado di rimanere incantato di fronte alle pagine di un manuale di conversazione?

Pubblicato su "L'Altro" il 1 novembre