sabato 3 ottobre 2009

Casa di bambola di Nauzycel: così lontana così vicina

Una gabbia onirica da cui i giovani attori entrano ed escono, attraversando come fantasmi, in punta di piedi, dei pannelli argentati, barriere leggere e sottili come i pensieri che invadono la scena. Il pubblico accerchia la gabbia dell’usignolo, la Casa di bambola in cui vive Nora Helmer e dove si consumerà in un modo memorabile il processo di una rivoluzione femminista ancora oggi incompiuta e istericamente punita. Per la diciottesima edizione dell’Ecole des Maitres (il progetto di formazione teatrale avanzata diretto da Franco Quadri e sostenuto da quattro partner europei, tra cui il Css -Teatro Stabile d’Innovazione Friuli Venezia Giulia, con la partecipazione per l’Italia dell’Eti), il francese Arthur Nauzyciel ha lavorato per mesi sul testo di Ibsen, arrivando a produrre un saggio-spettacolo che è stato presentato al Teatro Valle di Roma. A Doll’s House è un’opera potente e difficile, carica di quel pensiero in movimento che ci piace ritrovare a teatro e che ci costringe a fare il lavoro dello spettatore. Nauzyciel, che ha quarantadue anni e dirige da 2007 il Centre Dramatique Orléans-Loiret, conosciuto negli Stati Uniti e nei paesi del Nord Europa dove lavora assiduamente, è uno di quei registi di razza che non ragionano in termini di consumo culturale né di generi culturali. Cosa significa all’inizio del terzo millennio avvicinarsi ad un testo scritto nel 1879? Come artisti contemporanei, come dobbiamo investigare il campo di un autore che ha inventato il dramma moderno? Bisogna avvicinarsi o allontanarsi dal drammaturgo norvegese? Cosa deve sentire un attore di vent’anni nel pronunciare i dialoghi di Casa di bambola, chi è che parla e a chi parla? Sono domande che dietro la loro apparenza di normalità, nascondono delle vere micce di rivolta, perché costringono, se non si è in cattiva fede, ad inabissarsi in un pozzo buio dalle pareti scivolose. Dopo essersi fatto queste domande, Nauzyciel è sceso in profondità e non ha chiesto aiuto alla società dello spettacolo. E’ questa la sensazione ultima che procura la visione del suo A Doll’s House: uno studio rigoroso, affascinante, di grande intelligenza emotiva. Tre ore di spettacolo recitato in inglese, in una lingua che gli attori (italiani, portoghesi, belgi e francesi) agganciano come una maschera da indossare sul volto, non per nasconderlo, ma per mostrarlo in una luce diversa, più pura e più intensa. E’ uno dei paradossi dell’arte. Un piacere inequivocabile che nasce dall’ossimoro, e che così bene hanno colto i drammaturghi, gli scrittori, i cineasti del Nord Europa. Così lontano, così vicino. Ibsen è il padre incorruttibile di questo mistero alchemico, su cui hanno sbattuto la testa in vario modo tutti, in particolare Lars Von Trier e i suoi Dogmatici (basti ricordare Festen di Thomas Vinterberg), e su cui Arthur Nauzyciel ha costruito una partitura delicata e ferrea.
In abiti contemporanei, gli attori dell’Ecole “dicono” il testo di Ibsen con una lentezza bella, ipnotica, e sono gli uomini nella prima parte dello spettacolo a pronunciare le battute di Nora e di Kristine, mentre le donne entrano nella testa degli uomini, pronunciando le parole di Torvald, Krogstad e Rank, fino a riconquistare nella seconda parte il proprio abito sessuale. La musica dal vivo di Eric Slabiak partecipa attivamente all’organicità dell’opera, facendo intravedere nella trama sottile di questo processo drammatico il potenziale cinematografico, il dispositivo ambiguo della visione che si deposita nei corpi trattenendo nell’aria il richiamo all’altrove.
Le lampadine di un piccolo albero di Natale e un candelabro acceso sono gli unici punti di luce dello spettacolo, elementi poveri di un teatro vigoroso, dove i dodici attori non recitano i personaggi ma danno luogo ad un processo mentale, “agendo” in una lingua altra la misteriosa linea drammaturgica di Casa di bambola che non solo resiste al tempo ma lo anticipa: “Al tempo stesso politica e onirica, quest’opera è una piece per il futuro, si proietta nell’avvenire” dichiara il regista. La rivoluzione di Nora Helmer, che abbandona la famiglia per abitare il proprio “io” fuori dalla prigione delle proiezioni sociali e familiari, diventa nelle mani di Nauzyciel una materia particolare, fatta di particelle assolute, difficili da mischiare e confondere. Il fatto che il testo sia sillabato in una lingua straniera, invece di allontanarci, ci avvicina fatalmente alla gabbia di Nora, costringendoci ad ascoltare e immaginare attentamente il testo di Ibsen come se fosse la prima volta, con la purezza di chi va in un territorio stran

Pubblicato su "L'altro", settembre 2009

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