giovedì 14 maggio 2009

Il tetro "politttttttico" delle Albe


ROMA. Può il teatro – più della politica tout court – dire il martirio di un giovane corpo di donna, l’abuso dei padri, la violenza dei tutori della legge con “tutte quelle che non hanno preso aria”, quelle che sono state bruciate, quelle a cui hanno tagliato la testa, quelle che non si sono piegate? Sì, il teatro può, quando non fa una scialba denuncia da un palco mediatico, ma si affida, piuttosto, all’elettricità eretica e furiosa della sua lingua. Quando ad agitare da dentro, con il puro flusso di una voce rabbiosa, capace di rovistare tra i pasti rituali di un inferno regolato dalle leggi della Chiesa e dello Stato, trovi, per esempio, un’artista come Ermanna Montanari, l’anima femminile del Teatro delle Albe, che dopo diciassette anni dalla prima edizione, trafuga dalla sua memoria d’attrice interiore gli scritti di Rosvita – monaca/drammaturga sassone del X secolo - e sul palcoscenico del Teatro India richiama in vita un corpo plurale di donne morte in rivolta. Storie in cui “la debolezza femminile ha il meglio sul vigore maschile” (per usare le stesse parole della prima drammaturga d’Occidente, canonichessa di Gandersheim): le tre giovani cristiane Agape Chionia e Irene seviziate dall’imperatore Diocleziano e dal governatore Dulcizio affinché abiurino la loro religione: per mettere a tacere i canti delle donne, gli uomini non trovano altro modo che tagliare loro le teste. Mentre la prostituta Taide è costretta con la frode di un altro maschio alla conversione. Ci sono poi Agata Ester Rossana Fatima Dorina Drusiana….
Ciascuna di loro viene “abitata” dentro il ventre demonico/angelico di un’artista che conosce la poesia smisurata del dolore e le leggi festose dell’accoglienza, mentre dialoga nelle forme del canto gregoriano con le giovani Cinzia Dezi, Michela Marangoni, Laura Radaelli, coreute in cappuccio da raver.
Uno spettacolo arcaico e modernissimo, questo “Rosvita”, la cui regia firma Marco Martinelli: puro concerto, puro suono, puro vestito urbano, pura isola di luce che, mentre attende di accendersi di nuovo nelle serate estive di Milano (23 e 24 giugno al Paolo Pini), Volterra e Radicondoli, avrebbe diritto di essere allestita nei “non luoghi” di Marc Augè, aeroporti, autostrade, parcheggi, ipermercati. Tanto è potente il suo segnale luminoso, la sua storia di carne e sangue che parte dal Medioevo e arriva con il suo piccolo faro a disturbare l’appestata notte dei condomini di ogni grande o piccola città dove ogni giorno una donna viene picchiata e uccisa.
Per addentrarsi in forma ancora più diretta nell’utopia politica (anzi “politttttttica” con sette t) di quel Teatro che sul chiarore dell’alba ha eretto il prorio tempio nomade, il pubblico potrà vedere (fino al 16 maggio sempre al teatro India) un secondo spettacolo di Marco Martinelli, ancora una volta con Ermanna Montanari: “Leben”: il diavolo di Grabbe, drammaturgo tedesco di fine Ottocento, si posa qui sulle macerie dell’Occidente contemporaneo. “Attenzione – avverte Martinelli – c’è anche l’idea della bellezza, nel “politttttttico” che intendo io. Del politico come oggetto sacro, sfolgorante. L’opera (teatro o altro) è questo tempo fuori dal tempo. Mi fa sostare, mi fa abitare la realtà in un modo diverso dalla frenesia vuota dell’oggi”.


Pubblicato su "L'Altro" il 14 maggio 2009

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